Migranti e disagio mentale: linee guida e consigli contro i “traumi ignorati”

Per rispondere alle carenze del sistema d’accoglienza nell’accompagnamento dei migranti con sintomi di disagio mentale, il Ministero della Sanità si appresta a diffondere alcune linee guida che forniranno indicazioni per l’individuazione, la presa in carico e la certificazione delle vittime di tortura e dei soggetti più vulnerabili. I consigli di un medico della Caritas di Roma che lavora con i migranti.

Come sono seguiti i migranti che hanno problemi di disagio mentale, sia perché vittime di tortura o violenze, o anche perché i loro bisogni sono trascurati da una accoglienza inadeguata nei centri? O perché sono costretti a vivere in strada, in situazioni di degrado e povertà? Giorni fa Medici senza frontiere, inun rapporto sui “Traumi ignorati”, ha denunciato che il 60% dei pazienti visitati nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) presentava sintomi di disagio mentale connesso ad eventi traumatici, prima o durante il percorso di fuga. Di questi, l’87%  peggiorava a causa delle difficili condizioni di vita nei centri. L’imperativo di seguire i migranti più vulnerabili, tra cui coloro che rischiano di sviluppare o aggravare sintomi di disagio mentale, acquista dunque sempre più importanza, anche per scongiurare superficiali equazioni tra migranti, disagio mentale e rischio attentati. Cresce la consapevolezza nelle istituzioni chiamate a dare risposte. Il Ministero della Sanità ha elaborato in questi giorni alcune linee guida che forniranno, a tutte le strutture, indicazioni per l’individuazione, la presa in carico e la certificazione delle vittime di tortura. Gli studi più noti dicono infatti che circa il 30% di chi fugge ha subito gravi traumi e violenze, prima o durante il viaggio. Si stima che il 33-35% dei sopravvissuti a traumi estremi sviluppi, nel periodo successivo, un disturbo psicopatologico. Se i 29mila accolti nel sistema Sprar per richiedenti asilo e rifugiati sono seguiti bene, la situazione è invece più diversificata per gli oltre 100mila gestiti dalle prefetture e ospitati nei centri di prima accoglienza, in accordo con i Comuni. Il 10% sono in hotel o altri alloggi improvvisati, spesso senza una preparazione accurata degli operatori. Non c’è un monitoraggio. Secondo le nuove linee guida del Ministero della Sanità – ma spetterà poi alle Regioni la responsabilità di ottemperare le regole – gli enti gestori dei centri di accoglienza saranno valutati anche sulla capacità di seguire queste persone più vulnerabili.

Le linee guida ministeriali: formazione, visite e accompagnamento costante. “Attualmente non vi è un sistema di sorveglianza esteso su tutto il territorio nazionale”, ammette Serena Battilomo, direttore Ufficio 9 Tutela della salute della donna, dei soggetti vulnerabili e contrasto alle disuguaglianze del Ministero della Sanità, che però rassicura: “Tutte le istituzioni nel nostro Paese sono consapevoli delle criticità esistenti”, perciò sono state pensate misure ad hoc. Prima fra tutte il decreto legislativo 142 del 18/8/2015 per le persone vulnerabili, incluse le vittime di torture. La normativa prevede che le strutture garantiscano una valutazione iniziale e una periodica da parte di personale qualificato,  per accedere all’assistenza o a cure mediche e psicologiche fin dalla prima accoglienza, in collaborazione con la Asl competente. Le linee guida stilate dal gruppo di lavoro ministeriale, spiega Battilomo, “forniscono indicazioni per la migliore gestione dell’intero percorso di assistenza alle vittime: dall’individuazione, alla riabilitazione e alla certificazione, essenziale nell’iter della richiesta di asilo; si fa riferimento anche alla mediazione culturale, indispensabile per la costruzione della relazione, e alla formazione degli operatori”.

Gli antidoti: strutture di prima accoglienza meno traumatizzanti.All’interno del Servizio sanitario nazionale è dunque in atto una “rimodulazione” dei servizi, perché i migranti più vulnerabili siano seguiti “dal momento del primo soccorso alla permanenza nei centri, la riallocazione, sino alla stabilizzazione ed integrazione nella comunità”, precisa la dirigente, sottolineando il forte impegno e la collaborazione tra istituzioni e amministrazioni. Molte iniziative sono finanziate con risorse del Fondo asilo migrazione e integrazione 2014-2010.

“Dobbiamo fare in modo che la prima accoglienza sia più breve possibile e favorire il trasferimento nella rete Sprar, che garantisce una maggiore dignità nell’accoglienza e sostegno all’inserimento sociale. La realtà dei Cas dovrà necessariamente subire una evoluzione”.

I consigli degli operatori. Se circa il 30% dei migranti ha subito traumi e violenze “non tutti sviluppano un disagio psichico – avverte il medicoSalvatore Geraci, responsabile dell’area sanitaria della Caritas di Roma – perché gli indici di resilienza sono molto forti. Però, tra questi, il 40-60% può manifestare sindromi post traumatiche da stress o situazioni correlate”. Le cosiddette “ferite invisibili” rischiano però di essere aggravate da eventi che creano nuovi traumi, anche nel Paese di arrivo. “Se siamo abbastanza certi che lo Sprar è un sistema accogliente e resiliente, non possiamo dire lo stesso né dei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo), né dei Cas o degli hotspot. Possono traumatizzare in primis o ri-traumatizzare dopo”, conferma. Nel centro di psicoterapia della Caritas di Roma, ad esempio, si fa molta attenzione a tranquillizzare il migrante con sintomi di disagio mentale. Deve sapere di essere in un luogo sicuro, senza sbarre o rumori che possono creare nuovi traumi.

“Servono quindi psicologi anche nei centri di prima accoglienza, integrare i centri con i servizi pubblici, prendere contatti con il medico di base e con le strutture del territorio”.

Quest’ultimo è però un punto critico “perché non sempre le strutture, a partire dal Dipartimento di salute mentale – avverte -, sono preparate ad affrontare certi problemi. Le competenze, che già ci sono, devono essere formate”. Istituzioni e operatori sul campo concordano infine su un dato di fatto: a prescindere dal rischio terrorismo e violenza – il recente rapporto Europol afferma che “non c’è alcuna concreta prova che i terroristi nei loro spostamenti usino il flusso di rifugiati per entrare in Europa” –

tutti coloro che soffrono fisicamente e psicologicamente vanno accompagnati e tutelati, senza creare falsi luoghi comuni e stigma sociale.