L’inconscio di Pascoli

Nei “Poemi cristiani” lo sconfinamento verso altre terre, fede compresa

“La morte ormai non è più libera, è schiava, anzi proprio lei ci ricondurrà a casa, prima o poi”.

Già da queste parole tratte dal poemetto in latino “Paedagogium”, vale a dire “Il collegio”, si intuisce la complessità di un discorso sul Pascoli uomo e poeta al di fuori dagli schemi usuali. Ci aiuta la recente riedizione dei “Poemi latini” del poeta di “Myricae” (Lindau, 226 pagine). Scritti in diverse occasioni, tradotti qui nella classica e libera versione di Enzo Mandruzzato, rappresentano non una vena minore di Pascoli, ma anzi l’approfondimento di elementi del suo pensiero. Il Pascoli “razionalmente” non credente qui deve fare i conti con quello che alcuni studiosi hanno chiamato il “second self”, oppure “l’autre moi”, vale a dire il giungere in superficie dei motivi inconsci di un autore, al di là dei suoi programmi razionali.

I “Poemi cristiani”, fin dal titolo, rappresentano lo sconfinamento verso terre già toccate nella poesia maggiore: la scommessa della fede, la testimonianza radicale, la presenza della divinità e il dopo la morte. Il grande dubbio che ne scaturisce è la possibilità della scissione tra l’amore verso tutti gli uomini e la fede trascendente. Sembra quasi che Pascoli voglia verificare l’effettiva tenuta di una concezione del mondo in cui amore e altrove sono strettamente connessi, come nel cristianesimo delle origini. La risposta è che sì, certo, il singolo può amare gli altri in modo gratuito, ma nel cristianesimo questo amore diviene comandamento interiorizzato fino al sacrificio di sé. Inoltre appare abbastanza evidente che in questi poemi il discorso dell’amore nella Roma pre-cristiana è fortemente legato al discorso, un discorso nobile, si intende, sulla bellezza. L’abbandono delle sirene della bellezza in sé e per sé lascia dubbioso lo stesso poeta. Si può rinunciare alla bellezza vista come anima del mondo, segno essa stessa dell’esistenza degli dei che ne rappresentano il modello estremo?

Vi sono dei punti in cui i due elementi, l’eros pagano e l’agàpe cristiano si incontrano lasciando al lettore le considerazioni finali: durante l’incendio del 64, quello che costerà la vita a molti cristiani, accusati di esserne i responsabili, fanciulle seguaci di Gesù e prostitute salgono assieme sulla collina per sfuggire alle fiamme, e qui avviene l’atto rivelatore: “Ormai la folla promiscua, quella dell’agape segreta e quella del postribolo aperto, aveva raggiunta la cima del colle. Guardano, tra le fiamme che sormontano, la Città rosseggiante. Il quartiere bruciando emanava un diffuso odore d’incenso, come se si sacrificasse davanti a un’immensa ara. C’era una luce di focolare: Antusa (la fanciulla cristiana, Ndr) vicina vicina a Licisca copriva della sua veste verginale la sorella ignuda”.

Ognuno può trarre le sue considerazioni, e questo è uno dei meriti di una poesia che non impone dogmi di alcun tipo, anche quella che l’amore come eros possa essere coniugato con quello cristiano, come oggi sostengono alcuni pensatori come Hadjadj, solo per fare un nome.

Pascoli, si diceva, lascia aperte le porte dell’interpretazione su questo delicato problema, lui che non si è mai costruito una famiglia perché nel sesso avvertiva la componente pulsionale, violenta e animale e soprattutto perché, sulla scia di Schopenhauer, sentiva in profondità che avrebbe significato rimettere in circolo il dolore e le pene da lui stesso sofferti nella giovinezza. Ma qui, in questi poemi, non può non sorprendere l’atteggiamento di un grande scrittore laico che guarda con grande rispetto e spesso con emotiva partecipazione a qualcosa – la fede – che avrebbe voluto far propria senza riuscirvi mai fino in fondo.

Alla fine di questa lettura può accadere di ripensare alle differenze tra religioni, non solo tra quelle antiche e le attuali, ma tra quelle di oggi, come la cronaca ci propone drammaticamente.

Il discrimine tra laico e religioso, sembra dire il Pascoli “latino”, non è così semplice da definire. Pomponia Grecina, la moglie romana accusata di appartenere alla “pericolosa” setta dei cristiani si difende in questo modo: “E’ il frutto soltanto che rivela l’albero. Non si vendemmia dal rovo”: i frutti sono la manifestazione della giustizia e dell’amore, o dell’ingiustizia e del disordine, e se l’albero è sano, qualsiasi sia la sua terra, allora si avranno pace e amore. Al di là degli antichi steccati.