Industria: il sistema-Paese deve creare un ambiente attrattivo

I nostri imprenditori sono costretti a lottare tra una burocrazia invalidante e leggi eccessive, astruse e spesso aggirate. Occorrono poi forti investimenti, e il nostro è un capitalismo senza capitali; occorrono forti finanziamenti, e le nostre banche li stanno lesinando col contagocce. La necessità di cambiare rotta assecondando anche l’arrivo di grandi capitali esteri.

L’Italia mette le mutande al mondo. Ma anche i calzini, le cravatte, le scarpe di pelle… Sono tante le eccellenze produttive italiane che hanno conquistato il mondo, soprattutto in questi anni di euro: senza una moneta unica e potente, non si va alla conquista dei mercati mondiali, lo sappia chi crede che l’euro sia la causa di tutti i nostri mali.

Parlavamo di mutande: la veronese Calzedonia è una realtà da 1,5 miliardi di euro e un tasso di crescita del 15% annuo: diversi marchi, diversi prodotti, fabbriche in mezzo mondo, negozi a profusione. Ma è solo una delle tantissime eccellenze che non avranno le spalle enormi della Nestlè, o l’appeal della Coca Cola, ma che sono apprezzate ovunque. E non solo nei tradizionali settori della moda e del lusso, dove pure vantiamo eccellenze del calibro di Prada, Armani, Gucci, Zegna.

Se c’è un attrezzo ginnico all’avanguardia, ebbene quello è made in Romagna, marchiato Technogym; se c’è da allargare il canale di Panama, dentro troviamo la romana Impregilo-Salini; se c’è da impiantare una qualsiasi funivia non solo sulle piste da sci, ma pure nelle grandi città del mondo (una cabinovia è più efficace e meno costosa di una metropolitana), ebbene: o si chiama la Leitner di Bolzano o la sua concorrente austriaca. I migliori rubinetti si fanno a Brescia; l’eccellenza del mobile sta in Brianza (e non solo); un qualsiasi macchinario per l’imbottigliamento o il confezionamento di prodotti ha l’accento bolognese. E poi le piastrelle e i prodotti più avanzati per l’edilizia di Sassuolo; il biomedicale modenese; la calzatura di lusso con l’accento marchigiano… È l’Italia che va, parafrasando una canzonetta anni Ottanta.

Intendiamoci: c’è molto altro e molto di più rispetto ai prodotti che tradizionalmente immaginiamo per globali: il prosciutto, il Parmigiano, i dolci della Ferrero, i grandi vini, l’arredo di design e il tessile in tutte le sue declinazioni. L’Italia è il Paese dei piccoli macchinari, è la leader mondiale dei fogli in polimero di etilene e degli impianti di riscaldamento; il distretto della carta di Lucca insegna al mondo e quello degli occhiali di Belluno è quotato a New York. C’è tanto piccolo e medio manifatturiero che si sta facendo strada ovunque, anche se non compare sui giornali o i titolari non fanno vita da copertina.

La Sicim di Parma è da applausi nella sua opera di posa di condotte e impianti per gas o acqua, così come la Rosetti Marino di Ravenna; la Pedrollo di Verona è imbattibile nelle elettropompe; la Fabbrica Italiana Sintetici di Vicenza si è fatta un nome nei prodotti per l’industria farmaceutica. Solo alcuni tra le centinaia di nomi di realtà che non conoscono crisi e che si stanno espandendo un po’ ovunque.

E poi non è nemmeno vero che noi italiani siamo solo capaci di cucire camicie o di preparare (ottima) pasta. Non è forse vero che la migliore automobile del mondo, la Ferrari, si fabbrica a Maranello (e i migliori freni sono quelli della bergamasca Brembo)? E che le più grandi e splendide navi da crociera le facciamo qui, così come i più imponenti e lussuosi yachts? Che la tecnologia dell’iniezione diretta diesel era frutto della Fiat? E che non ci sarebbe la Silicon Valley se non ci fosse stata l’Ivrea Valley?

La verità è che sappiamo fare tutto, e se siamo usciti fuori da fondamentali business i cui prodotti ora siamo solo costretti ad importare, è per vicende storico-aziendali che esulano dalle nostre capacità. Solo che ora, usciti dalla chimica, dall’informatica, tra un po’ anche dalla siderurgia, dalle telecomunicazioni e dal grosso del settore auto, non abbiamo più i mezzi per rientrarvi. Occorrono forti investimenti, e il nostro è un capitalismo senza capitali; occorrono forti finanziamenti, e le nostre banche li stanno lesinando col contagocce.

Occorre soprattutto un sistema-Paese attrattivo per chi voglia intraprendere, soprattutto con ingenti mezzi. E qui proprio non ci siamo. Purtroppo non ci siamo pure per i nostri piccoli cavalieri dell’imprenditoria nostrana, costretti a lottare tra una burocrazia invalidante e leggi eccessive, astruse e spesso aggirate.

Così capita di leggere di una bella azienda friulana che non riesce a raddoppiare gli spazi produttivi – e l’occupazione – per l’opposizione del sindaco locale, più attento alle esigenze di qualche elettore amico (ostile alla realizzazione dello stabilimento) che della comunità. Tanto da obbligare l’azienda stessa ad impiantare nel vicino Veneto la nuova struttura produttiva, a quaranta chilometri di distanza e con le ovvie duplicazioni di costo. Peccato poi attendere mesi il nulla osta dei vigili del fuoco, nonostante l’urgenza d’iniziare.

Questa è l’Italia che va, figuriamoci le difficoltà di quella che proprio non va più e che sta a Sud dell’Abruzzo e del Lazio. Sta tramontando il distretto del divano tra Bari e Matera; sta collassando il sistema industriale tarantino; è in forte difficoltà la fu Etna Valley catanese e si sta de-industrializzando l’intera Sardegna. In Molise si raccolgono i cocci della filiera tessile ex Itierre mentre in Campania brucia la Terra dei fuochi. Le poche realtà che ancora funzionano bene (soprattutto in Puglia e Campania) rischiano di ritrovarsi in mezzo ad un deserto dove non fiorisce più l’impresa.