Il freddo protegge il cervello

Nuovi studi sul ruolo di una proteina, la RBM3, “sensibile alla ipotermia”

Anche il freddo, talvolta, può essere nostro alleato. La storia della medicina, infatti, è disseminata di esempi in cui il freddo è stato usato come strumento terapeutico. Da “Claudio” Galeno, che nell’antica Grecia, lo usava per trattare la febbre, alle sue applicazioni per migliorare gli esiti della chirurgia, nelle cura delle gravi ferite riportate nei campi di battaglia. La crescente evidenza della sua efficacia, poi, portò i chirurghi negli anni ‘50 ad usare l’ipotermia per migliorare gli effetti collaterali della chirurgia cerebrale, ed anche ai nostri giorni, per esempio, il freddo è un efficace trattamento per l’asfissia neonatale (una carenza di ossigeno durante il periodo perinatale che può causare danni al cervello).

Nel solco di queste ricerche, nel 1987 uno studio su animali suggeriva che il “raffreddamento” (cooling) potesse ridurre la morte dei neuroni dopo un danno cerebrale. Riprendendo questo spunto, in un recente articolo pubblicato su Nature, alcuni ricercatori (Peretti e coll.) hanno presentato chiare evidenze sul ruolo-chiave di una specifica proteina nella capacità del cervello di ridisegnare le sue connessioni, se sottoposto al “cooling”, e su come la sovraespressione (alti livelli) di essa possa portare benefici terapeutici nelle malattie neurodegenerative. La neuroprotezione offerta dal freddo, infatti, ha stimolato gli sforzi degli scienziati per comprenderne i meccanismi responsabili.

L’aspetto di maggior interesse di questa ricerca sulla neuroprotezione riguarda un piccolo gruppo di proteine, la cui sintesi aumenta durante l’ipotermia, anche se la produzione di altre proteine diminuisce. Queste proteine “sensibili al freddo” (cold-shock proteins), presenti in diverse specie animali (uomo compreso), si legano al RNA (acido desossiribonucleico) cellulare e mediano la sintesi proteica nel suo complesso. In particolare una di esse (detta RBM3) ha dimostrato di avere un ruolo centrale nella protezione dei neuroni dopo un periodo di ipotermia. Nel loro studio, Peretti e coll. hanno sottoposto dei topi con morbo di Alzheimer e dei topi infettati con prioni (agente patogeno di natura proteica che causa malattie neurodegenerative come la malattia di Creutzfeldt-Jakob) ad una profonda ipotermia, abbassando la temperatura corporea degli animali da 37°C a 16-18°C, per circa 45 minuti. Quindi, i ricercatori hanno identificato e contato al microscopio elettronico le connessioni sinaptiche tra i neuroni, scoprendo che, durante l’ipotermia, il numero di “contatti neuronali” era diminuito drasticamente in una regione del cervello (l’ippocampo) deputata alla formazione della memoria. Ma una volta che i giovani animali sono stati riportati alla temperatura consueta, il numero delle sinapsi è ritornato normale. Con una differenza, però: gli animali più vecchi, in cui si è verificata la stessa perdita di sinapsi, non sono stati capaci di recuperarla.

Dunque gli effetti dell’ipotermia sulla proteina Rbm3 è differente negli animali giovani e nei vecchi, mentre nei primi i livelli di Rbm3 crescono in risposta alla caduta di temperatura, nei più vecchi non è così. Il fatto che la plasticità e il recupero di connessioni sinaptiche sia mancante quando i livelli di Rbm3 non crescono, ha condotto Perelli e colleghi ad investigare se anche un incremento artificiale dei livelli di questa molecola avrebbe rappresentato una “protezione” contro le malattie neurodegenerative. Essi, quindi, hanno sottoposto i topi infettati con prioni a due trattamenti di ipotermia, a distanza di una settimana l’uno dall’altro. Ciò ha causato la permanenza di alti livelli di Rbm3 per 8 settimane nei topi giovani e l’assenza tanto di perdite sinaptiche o neuronali, quanto di deficit comportamentali, come invece ci si sarebbe aspettati nelle fasi terminali della malattia. Inibendo invece la proteina, non si è verificata alcuna protezione.

Dunque è apparso chiaro il ruolo della Rbm3, piuttosto che di altri fattori legati all’ipotermia, nella neuroprotezione. A questo punto, i ricercatori hanno messo da parte l’ipotermia e hanno provato a stimolare un mero aumento dei livelli di Rbm3 nei topi infettati con i prioni, ottenendo ancora evidenze di neuroprotezione e soppressione di deficit comportamentali. Questa ricerca, pur in prospettiva, indica quindi una possibile via, da approfondire con ulteriori ricerche, per contrastare o almeno rallentare la progressione delle devastanti malattie neurodegenerative. Ma anche indica come lo stretto controllo dei processi della sintesi proteica sia cruciale per il mantenimento dei circuiti neuronali in un cervello sano. Naturalmente sono molte le questioni ancora da chiarire, prima di poter passare alla sperimentazione sull’uomo. Ma, per chi è colpito da gravi malattie neurodegenerative, una speranza in più è stata accesa. Grazie alla buona scienza.