«Con i giovani essere “rock”, cioè “pietre”»: il vescovo Domenico indica le possibili strade da percorrere

«Questo è quello che mi sentivo di dirvi, dopo aver ascoltato per tre giorni, insieme a voi, i giovani. Amen». Ha concluso così il vescovo Domenico il suo intervento, volto a tirare le somme di quanto vissuto nelle giornate dell’incontro pastorale e offrire indicazioni per mettersi in sintonia con il proposito che la Chiesa locale si è data: camminare “al passo dei giovani”.

L’intento, sin dall’inizio, era quello di evitare recriminazioni, allarmismi e pessimismi. «Serve a poco lasciarsi invadere da quel senso di impotenza che ci prende rispetto alla fuga dei giovani. Conta di più ritrovare il senso delle cose per cui siamo gli uni legati agli altri e il compito degli adulti è quello di restituire il senso delle cose», ha detto monsignor Pompili. Il problema dell’educazione e del giusto rapporto tra le generazioni, da affrontare con quella sapienza che ci viene dalla prospettiva biblica, «dove la sequenza delle generazioni è il filo rosso del suo racconto. Lo si intuisce dal Primo Testamento dove un grande arco unisce il primo e l’ultimo libro. Mentre la Genesi indica la legge di vita come legge di separazione delle generazioni (“Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie”: Gen 2, 24), il libro di Malachia annuncia il ritrovarsi; il profeta Elia convertirà “il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” (Mt 3,24). Nel racconto di Luca, questa profezia apre la storia evangelica, poiché l’angelo fa sapere a Zaccaria che suo figlio “gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1, 17). E dunque occorre imparare dalla Scrittura, da quel Dio che si presenta, nella famosa parabola del padre che ritrova il figlio perduto tra la gelosia del fratello rimasto, come «un Padre prodigo che reagisce alla fuga esteriore del figlio minore e a quella interiore del figlio maggiore ben altrimenti. Sa pazientare, amare e attendere».

Tre gli impegni con cui don Domenico ha inteso riassumere «la strada che ci attende», definiti in «Andare all’essenziale, rinnovarsi, coinvolgersi».

Iniziando con «Andare all’essenziale, cioè ascoltare i giovani». Ancora una volta la lezione viene dalla Bibbia, dove «è sempre a partire dall’interrogazione del figlio che il padre diventa tale. Un conto infatti è essere genitore e un conto è diventare padre. Per questo tutto nasce sempre da una domanda collocata nel cuore della notte di pasqua: “Quando i vostri figli vi chiederanno: ‘Che significa questo rito?’. Voi direte loro: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore il quale passò oltre le case degli israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Es 12, 26-27). La domanda del più piccolo innesca il racconto che sposta l’attenzione dal padre a JHWH. Il figlio è colui che interroga, che mette il padre in condizione di parlare a sua volta».

E ha fatto riferimento alle significative provocazioni venute sabato pomeriggio dal “salottino” dei giovani guidato da Monica Mondo, con le tante istanze emerse dall’ascolto di diverse esperienze, esigenze, sensibilità.

Per saper rispondere ai tanti stimoli che l’ascolto della gioventù suscita la strada tracciata è quella del Rinnovarsi. Che significa, per Pompili, «ringiovanirsi anche noi. Ma non con tecniche di maquillage o make-up, ma facendo con spirito nuovo le cose di sempre».

Le cose di sempre da rinnovare il vescovo le individua attorno ai tre munera dell’azione pastorale. Primo, «una catechesi più personalizzata: al fondo della questione non c’è catechesi esperienziale o catechesi dottrinale, ma catechesi con un incontro o senza incontro. La relazione è quello che resta», come dimostra il sondaggio presentato in cui è emerso che quello che rimane a un giovane è la figura educativa di riferimento: più che di metodo e tecnica, dunque, è questione di stile. Uno stile relazionale nell’educare i ragazzi.

Poi, «una liturgia più viva», ha proseguito il vescovo, prospettando il puntare a una liturgia che «sarà coinvolgente se sarà viva. Cioè se metterà al centro Lui, il Signore; se saprà essere popolare e non clericale; se sarà non un’idea o una spiegazione ma un momento di bellezza, di emozione interiore, di silenzio profondo». E poi «una carità più condivisa. Il terremoto è stata una sciagura, ma ci ha fatto ritrovare la solidarietà di tanti. Più di 300 giovani si sono alternati nell’area del cratere», arrivati in questi mesi, soprattutto d’estate, da tante parti d’Italia. Ma noi reatini, ha sottolineato il vescovo, dobbiamo evitare di restare «in finestra». Il progetto di Casa Futuro ad Amatrice deve porsi come «una realizzazione da far crescere insieme come occasione per sperimentare forme di volontariato e di cooperazione».

Terzo impegno, quello di «coinvolgersi: ce ne torniamo a casa con una persuasione. Le cose non cambiano se non ci si coinvolge, sporcandosi le mani. C’è bisogno di fare proposte. Ma ci vogliono persone pronte a perdere tempo e a uscire dall’isolamento. C’è spazio per tutti. E per ogni età».

In questo occorre sentirsi coinvolti tutti, dal clero ai religiosi, agli insegnanti a tutte le figure educative. E occorre, ha ribadito Pompili, «occorre mobilitare le famiglie e la Chiesa con loro. Solo insieme si riuscirà a smuovere le generazioni più giovani. E non senza giovani che siano i primi interlocutori dei propri coetanei. Alla vigilia del nuovo anno scolastico le parole di don Milani che facevano della scuola “l’ottavo sacramento” suonano pertinenti».

La conclusione monsignore l’ha lanciata ricordando il Celentano di qualche anno fa e il famoso “lento o rock”: «il contrario di lento non è veloce, ma è “rock”. Non dobbiamo inseguire i giovani sulla loro frequenza iperveloce della rete. Ce lo chiedono loro stessi. Sono già abbastanza confusi di loro. Ci è chiesto di essere “pietre”, cioè solidi e, nello stesso tempo, affidabili. Questo è il cammino che ci attende. A figli assenti corrispondono educatori assenti A figli presenti corrispondo educatori non lenti e neanche veloci, ma rock, cioè consapevoli che quello che abbiamo è solo quello che riusciremo a trasmettere a chi verrà dopo di noi».