Dopo i fatti di Macerata: l’integrazione è un lavoro paziente e complicato

A Rieti come altrove i social network sono pieni di recriminazioni, accuse e offese contro gli stranieri, anche se fuori dalla rete la convivenza quotidiana non fa registrare le situazioni drammatiche di altre città. Fatta eccezione per alcune realtà particolari, l’integrazione è comunque minimale e a conti fatti il fenomeno viene vissuto con un sentimento che oscilla tra l’indifferenza e l’ostilità. Segno che non bisogna dare nulla per scontato e lavorare costantemente alla costruzione di uno spazio comune.

Per fortuna Rieti non sembra soffrire più di tanto per il fenomeno migratorio. Il tema che sta esasperando tanta parte del dibattito elettorale, infatti, negli ultimi mesi è comparso poche volte nella cronaca locale. Nulla di troppo grave: schiamazzi notturni a parte, il bilancio comprende qualche rissa o poco meno. Il dato positivo potrebbe dipendere dalla piccola dimensione della città e dai numeri relativamente ridotti di rifugiati e richiedenti asilo, che rendono facile il controllo da parte delle forze dell’ordine. Oppure è la buona capacità di fare integrazione dei progetti Sprar e dell’accoglienza straordinaria a fare la differenza, anche rispetto ad alcune spiacevoli situazioni del recente passato.

In ogni caso, siamo lontani dal clima di violenza che lasciano intendere i recenti fatti di Macerata. Da un lato c’è una ragazzina tossicodipendente uccisa e fatta a pezzi, il cui presunto assassino è uno spacciatore di droga nigeriano. Dall’altro un ventottenne dalle simpatie neofasciste che ha sparato su sei persone africane, ferendole in modo grave e seminando il panico per le vie della città.

Di fronte a questi fatti, il tenore del dibattito pubblico spaventa. A troppi sembra facile scaricare il peso di una vita difficile e di un delitto orribile sullo “straniero”: sono gli stessi che, invocando il peso dell’immigrazione clandestina, quasi trasformano le vittime della sparatoria in colpevoli. Non è una novità: responsabili politici di ogni livello, dall’ultimo dei consiglieri comunali ai banchi del Governo, da molto tempo rilasciano dichiarazioni ostili, se non addirittura aggressive, nei confronti di neri, africani, musulmani, rom, romeni, richiedenti asilo e migranti in genere. Non manca chi prova ad ammorbidire i toni, ma di fronte ad anni e anni di violenza verbale sembra servire a poco. Anche al di fuori dei contesti più radicali, il linguaggio sembra essersi fatto tagliente e feroce. E se è vero che la lingua che parliamo denuncia come pensiamo e annuncia come agiremo, c’è da stare poco tranquilli.

Parole pesanti, infatti, trovano posto anche tra la gente comune, soprattutto sui social network. Forse perché lo schermo disinibisce e porta a galla pensieri ostili, insoddisfazioni e paure da sfogare nei post e nei commenti. Ma anche al bar o in piazza certi luoghi comuni non mancano. Ad esempio quando la lamentela investe le attuali politiche di accoglienza dei rifugiati e richiedenti asilo, che sarebbero troppo generose in confronto ai disagi sofferti dagli emigranti italiani, che misero sogni e speranze nella valigia di cartone cercando fortuna all’estero. Eppure, fatta la tara alle bufale sugli hotel di lusso, nell’aver guadagnato qualcosa in umanità non c’è nulla di cui vergognarsi, né si fa un torto alla memoria di gente che ha sudato il proprio successo.

Sbaglia però chi pensa di risolvere tutto facendo sentire colpevole o razzista chi si crede assediato dai diversi, chi non riesce a stare al passo di un mondo che cambia, chi vive con sofferenza in una città che non riconosce più. I conflitti generati dall’arrivo delle persone straniere esistono e non vanno ignorati. È anche sulla rimozione del problema, infatti, che crescono l’intolleranza e la paura. La questione non si può aggirare: la diversità è difficile da affrontare e dire che dobbiamo sentirci automaticamente integrati è poco realistico. Il fenomeno dell’immigrazione ha più facce e non ci si può prendere il lusso di semplificare troppo. Anche perché i movimenti migratori non si fermeranno: sono spinti da ragioni profonde e complesse che hanno a che fare con l’economia globalizzata, con i cambiamenti climatici, con la contraddizione tra il benessere del nord del mondo e l’estrema povertà vissuta nell’emisfero sud del pianeta.

Non si tratta di fenomeni nuovi e alcune conseguenze di questo stato di cose erano state previste. Alle generazioni nate dagli anni ‘70 in poi, la prospettiva di una società multiculturale è stata annunciata già al tempo della scuola. E a guardare il presente viene il dubbio di aver fallito nell’imparare la lezione, perché ci dimostriamo impreparati a qualcosa che sapevamo sarebbe comunque accaduto. In realtà, non mancano persone capaci di un pensiero critico, pronte a misurarsi con la ruvidezza della realtà senza rinunciare ai principi di umanità, solidarietà e accoglienza. Abitiamo un mondo caratterizzato da migrazioni che spostano milioni di persone, ma non è troppo tardi per capire meglio i problemi e svelenire il dibattito pubblico, per dire che la situazione non può essere affrontata con qualche bacchetta magica, ma solo attraverso un lavoro paziente e complicato, che affronta le tensioni per quello che sono, cercando di superare una dopo l’altra le tante contraddizioni, senza perdere la speranza.

Lo scorso settembre, Papa Francesco invitava a cercarla tanto «nel cuore di chi parte lasciando la casa, la terra, a volte familiari e parenti, per cercare una vita migliore, più degna per sé e per i propri cari», quanto «nel cuore di chi accoglie, nel desiderio di incontrarsi, di conoscersi, di dialogare». Per abitare pacificamente il mondo che ci si apre davanti ci sono da superare due paure: quella di chi arriva e teme il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento, e quella di chi riceve, che teme di vedere modificata la propria situazione dalle nuove presenze. «Avere dubbi e timori – ha spiegato il Papa – non è un peccato. Il peccato è lasciare che queste paure determinino le nostre risposte, condizionino le nostre scelte, compromettano il rispetto e la generosità, alimentino l’odio e il rifiuto».