Fai bei sogni. La nuova pellicola di Marco Bellocchio

La nuova pellicola di Marco Bellocchio tratta dal bestseller di Massimo Gramellini

Nel 1964 Marco Bellocchio gira il suo film d’esordio, “I pugni in tasca”, pellicola destinata a suscitare scalpore e anticipatrice di tutta una serie di tendenze della società italiana a venire. Nell’opera di Bellocchio, infatti, si raccontava la storia di un giovane che, senza rimorso alcuno, uccide la madre e poi il fratello, ma che finisce lui stesso per morire a seguito di un attacco epilettico. Una storia dura, pessimista, per nulla rassicurante, anzi volutamente sgradevole e pensata per provocare il pubblico borghese a cui è rivolta e di cui parla. È la prima pellicola italiana che potremmo definire “sessantottina”, perché porta con sé lo spirito infuocato di rivolta che di lì a poco muoverà i giovani a ribellarsi sulle piazze, urlando slogan contro la famiglia, la società, le istituzioni. Il film di Bellocchio è un grido violento contro le tradizioni, che vuole bruciare (come letteralmente fa il protagonista in una scena della pellicola) tutte le realtà della società attuale, a cominciare dal nucleo familiare. Che è visto come una prigione, un qualcosa che imbriglia la libertà e l’individualità del soggetto e che non gli permette di autodeterminarsi. Un peso di cui sbarazzarsi, nella maniera più violenta possibile.
Sono passati 50 anni da quell’esordio e Bellocchio continua a sviscerare il mondo degli affetti familiari, anche se sembra aver cambiato prospettiva nell’affrontare questa materia per lui così centrale. “Fai bei sogni” è il suo nuovo film e ha al centro del racconto il rapporto mancato tra un figlio e sua madre. Un rapporto mancato perché la madre è morta troppo presto e il giovane figlio non riesce a fare i conti con la sua assenza, a elaborare il lutto e a crescere. La pellicola è tratta dal bestseller di successo dallo stesso titolo scritto dal giornalista Massimo Gramellini. Nel libro Gramellini racconta la sua dolorosa autobiografia: la sua vita da orfano a soli nove anni e tutto il cammino da lui compiuto per colmare l’assenza di una madre amatissima. Già dalla scelta di mettere in scena un romanzo di questo tipo, Bellocchio dimostra di aver modificato radicalmente il suo approccio alla figura materna: se ne “I pugni in tasca” era un peso di cui liberarsi, uccidendola; qui è un soggetto amato, un fantasma continuamente evocato che si vorrebbe ancora accanto a sé. Non c’è più voglia di provocare e distruggere, bensì tenerezza e desiderio di conciliazione. Il nucleo familiare diventa qualcosa di preziosissimo che il bambino ha perso troppo presto e non qualcosa da abbattere. È rimasto con lui il padre, ma non riesce a supplire alla mancanza di una madre dolce e accudente, laddove il padre è severo e rigido e cerca di crescere il figlio come può. In più tutta la situazione è complicata dal modo in cui la giovane madre è morta e che verrà svelato solo alla fine del film.

Il film segue quasi alla lettera il libro di Gramellini e risulta forse un po’ troppo lungo in alcune sue parti. Le scene migliori sono quelle dedicate al protagonista bambino: prima ripreso insieme alla madre, poi alle prese con il lancinante dolore della sua mancanza. In più c’è da sottolineare che, forse per la prima volta, la figura di un prete non ha una connotazione negativa, come generalmente avviene nelle opere di Bellocchio: il sacerdote che fa da insegnate del collegio in cui studia il piccolo protagonista, infatti, è quello che gli darà uno dei consigli migliori e più saggi per affrontare la sua vita: “Si diventa grandi ‘nonostante’”.