Un ricordo dello scrittore Ermanno Rea

Un ricordo dello scrittore scomparso recentemente

“Prendiamo le scienze economiche correnti: il loro ragionare non conosce altre parole che crescita, sviluppo, mercato, profitto, concorrenza, Pil, finanza, inflazione, deflazione, monopolio, tasso d’interesse, e via elencando, all’interno di una galassia lessicale in cui l’unica parola che manca è la parola uomo, intesa come fame, sete, tetto, sanità, alfabeto, scuola”.
Ermanno Rea, lo scrittore napoletano scomparso recentemente, parla di Federico Caffè, il grande economista di cui si sono perse le tracce il 15 aprile del 1987. Lo fa in un libro del 1992, “L’ultima lezione” (Feltrinelli, 290 pagine), a metà strada tra il pamphlet e il racconto. Rea sapeva come andavano – e vanno tuttora – le cose del mondo: è stato partigiano, ha militato nell’allora Pci, ha scritto per il giornale e i periodici di quel partito, se ne è andato sbattendo la porta perché non voleva fare come le tre scimmiette che non sentono, non guardano, non parlano. Stalin doveva essere il salvatore della Grande Patria e lo sterminatore del nazismo, nel partito comunista dovevano regnare per forza la libertà e la concordia, e chi diceva il contrario era una spia al servizio degli americani. Per non scrivere cose che non pensa, Rea lascia il giornalismo e la scrittura, se ne va, gira il mondo, quasi tutto il mondo, scattando fotografie. Poi torna, decide che scrivere non è poi così male, magari per giornali meno legati ad ortodossie di partito, come “Il Mondo” di Pannunzio, e ubbidisce alla vecchia vocazione di narratore di storie. Fuori dagli schemi, però, basta con le vecchie definizioni e distinzioni di romanzo, racconto, pamphlet, biografia, servizio di costume: parole, purchè al centro ci sia la realtà. I militanti nel Pci di allora diventano una storia raccontata in “Mistero napoletano”, come una realtà dolente, la Napoli dell’Ilva, svenduta ai cinesi e smobilitata, viene raccontata in “La dismissione”, anche se Napoli, per lui che se ne è andato in giro per il pianeta per poi abitare dovunque ma non a Napoli, resta il centro affettivo, disincantato eppure materno della sua vita.
Ma uno scrittore-giornalista e per di più artista della fotografia non può rimanere incatenato, lui stesso lo diceva, alla fissazione “materna” che rischia di farti diventare sterile e monomaniacale. La sua “analisi” del caso Caffè è lì a dimostrarlo.
Quella di sparire è stata forse una scelta di fronte ad una economia in cui il professore non si riconosceva più, tutta tesa agli utili, completamente spersonalizzata e spersonalizzante, lontana dal modello keynesiano dell’intervento costruttivo dello stato a garanzia dei ceti più esposti alle bolle speculative contro cui Caffè non cessava di mettere in guardia. Attenzione ad un nuovo “infeudamento”, scrisse una volta, un nuovo feudalesimo realizzato attraverso la “nomina di dirigenti rivelatisi inclini all’arricchimento individuale, più che al progresso sociale”. E lo scrisse molti anni fa. In tempi insospettabili.
Un po’ come il Majorana di Sciascia, spaventato da quelle che avrebbero potuto essere –e sarebbero state- le conseguenze della scienza atomica, il Caffè di Rea decide di sparire, di non essere complice. Nulla è per caso: Caffè e tutti gli altri che hanno scelto –se lo hanno davvero scelto- il silenzio ricordavano a Rea la scelta del suo, di silenzio, quello di un uomo che decide di non scrivere più per non dire bugie. “De te fabula narratur”, scriveva Orazio, perché in parte, piccola o grande non importa, di noi si parla nella storia che noi stessi stiamo scrivendo, facendo finta di parlare d’altre storie.