Dissesto idrogeologico: Ispra, “non è mai corretto parlare di messa in sicurezza del territorio. Si possono solo ridurre gli effetti catastrofici”

L’88,3% dei Comuni italiani è a rischio per frane e alluvioni. La stessa struttura del nostro Paese, con molti rilievi, offre pochi spazi per l’urbanizzazione e, quindi, le città sono state costruite in quegli spazi che naturalmente i fiumi invadono quando le precipitazioni sono intense.

Livorno sta ancora piangendo i suoi otto morti per l’alluvione che ha colpito la città nella notte tra il 9 e il 10 settembre. Negli anni scorsi disastri così sono successi a Genova, in provincia di Messina, in Sardegna… Precipitazioni intense, conseguenza dei cambiamenti climatici, e consumo di suolo, insieme, aprono le porte a disastri, perché l’Italia, per le sue caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche, è un territorio predisposto a fenomeni di dissesto, sia franosi sia alluvionali. Ne parliamo con Pier Luigi Gallozzi, responsabile della Sezione Sviluppo e coordinamento del Sistema-Rendis (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo) dell’Ispra (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) – Dipartimento per il Servizio geologico d’Italia.

L’Italia è un Paese in cui è marcato il dissesto del territorio. Perché?

L’Italia è un Paese giovane, ha un’abbondanza di fiumi e di rilievi – il 75% del territorio nazionale è montano-collinare -, quindi per sua natura, è un territorio più interessato da frane, che sono estremamente diffuse.

L’Inventario dei fenomeni franosi in Italia (Progetto Iffi), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province autonome, contiene oltre 614.000 frane, verificatesi a partire dall’anno 1116, che rappresentano i due terzi delle frane complessivamente censite in Europa dai Servizi geologici nazionali.

Per quanto riguarda le alluvioni, incidono i cambiamenti climatici, che portano a una maggiore frequenza di eventi intensi.

Eventi di grande intensità, che una volta si stimava potessero verificarsi ogni 100-200 anni, adesso capitano anche ogni 10 o 20 anni. Incide poi l’urbanizzazione, il cosiddetto consumo di suolo, che porta a un più rapido trasferimento delle precipitazioni.

È elevata la quota di territorio a rischio?
L’8% del territorio nazionale (24.123 km2) è classificato a pericolosità da frana elevata e molto elevata nei Piani di assetto idrogeologico (Pai) e l’8,1% (24.411 km2) a pericolosità idraulica media, ovvero può essere inondato con tempo di ritorno fra 100 e 200 anni (d.lgs. 49/2010 di recepimento della Direttiva alluvioni).

L’88,3% dei Comuni italiani è a rischio per frane o alluvioni.

La popolazione a rischio idrogeologico supera i 7 milioni di abitanti (12% del totale), dei quali oltre 1 milione è residente in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata e quasi 6 milioni in zone a pericolosità idraulica media. Tali dati derivano dalle mosaicature nazionali della pericolosità da frana e idraulica e dagli indicatori nazionali di rischio idrogeologico prodotti.

Come mai si è costruito in zone a rischio?
La stessa struttura del territorio, con molti rilievi, offre pochi spazi per l’urbanizzazione e, quindi, le città sono state costruite nelle piane alluvionali, cioè quegli spazi che naturalmente i fiumi invadono quando le precipitazioni sono intense. Per mettere in sicurezza queste aree abbiamo costruito argini, quindi chiudendo, fissando e bloccando gli spazi dove il fiume può passare. Quanta acqua passa in una sezione è fissata in calcoli che se fatti bene sono prudenziali. Si può progettare una sezione, ad esempio, per far defluire una piena che si verifica ogni 100 o 200 anni, ma se capita un evento con intensità superiore il fosso tombato si riprende i suoi spazi e allaga quello che trova intorno. Quindi c’è l’eccezionalità degli eventi, ma siamo anche su territori nei quali i fiumi sono stati incanalati e bloccati e, purtroppo, molto spesso tombati per costruirci sopra.

Non è mai corretto parlare di messa in sicurezza del territorio.

Quando andiamo a fare un intervento, come un sopralzo di argine piuttosto che una cassa di espansione per laminare la piena, andiamo a ridurre solo la probabilità che un evento climatico eccezionale produca degli effetti catastrofici.

La messa in sicurezza, allora, è un’illusione?
Il problema è nel modo in cui, una volta, veniva considerata la messa in sicurezza di un’area. Immaginiamo una zona con una modesta urbanizzazione a ridosso di un’area fluviale che ogni vent’anni poteva finire allagata.

Per proteggere quell’area si realizzava un argine in modo tale da allontanare l’evento capace di allagarla a duecento anni; siccome la pericolosità di quell’area si era ridotta, a volte le amministrazioni rimuovevano i vincoli e su quell’area l’urbanizzazione, prima modesta, si intensificava.

Il risultato è che quando si verificherà l’evento “duecentennale”, che può anche arrivare domani, di fatto il rischio effettivo è aumentato perché adesso ci sono 500 residenti anziché 20.

È un meccanismo perverso.

Come si può intervenire?
Si può intervenire su più fronti. Da un lato, gli interventi di mitigazione vanno sicuramente fatti perché riducono il rischio dell’esistente, ma non deve essere aumentato il bene esposto a seguito di questi interventi. Dall’altro, la manutenzione nelle aree a monte e la realizzazione di bacini di laminazione sono ulteriori elementi che favoriscono l’abbassamento del rischio e, quindi, le conseguenze di eventi intensi.

Occorre evitare di aumentare nei bacini interessati da tali fenomeni le coperture di suolo.

Un piazzale asfaltato porta l’acqua a valle, durante una pioggia, molto più rapidamente e quantitativamente di un’area agricola. In generale, se la manutenzione sull’argine non è assidua e attenta, il rischio che si verifichi un collasso dell’argine stesso è fonte di ulteriori danni. La manutenzione sul reticolo è in capo agli enti locali, a seconda del livello del corso d’acqua. Il problema è che spesso non ci sono risorse dedicate.

Adesso, però, l’orientamento sta cambiando perché in progetti finanziati dal Governo cominciano a esserci anche interventi di manutenzione lungo gli alvei, mentre nell’impostazione classica, fino ad alcuni anni fa, si spendeva nelle opere strutturali, ma quasi niente sulla manutenzione.

C’è anche un problema culturale?
Sì, l’ultimo aspetto è

la consapevolezza del rischio a cui siamo esposti.

C’è bisogno, perciò, di un lavoro di sensibilizzazione, già a partire dalle scuole: c’è ancora molto da fare affinché le persone s’informino della condizione di pericolosità dell’area in cui vivono. Informazioni si trovano sui siti dei Distretti, dell’Ispra, di Italia Sicura con le mappature dei luoghi.