Le cure domestiche

Il romanzo d’esordio di Marilynne Robinson rappresenta una profonda riflessione, in cui si incontrano fede, racconto biblico, analisi del profondo, racconti d’avventura, noir, e soprattutto una capacità non solo di intuire, ma di dire ciò che è difficilmente accessibile alle umane possibilità di espressione

“Il primo evento di cui abbiamo conoscenza fu un’espulsione, e l’ultimo si spera sia una riconciliazione e un ritorno. Così la memoria ci spinge in avanti, così la profezia è geniale memoria”.
“Le cure domestiche” (Einaudi, 199 pagine) è qualcosa di più di un romanzo d’esordio: Marilynne Robinson lo scrisse molto prima della trilogia (“Gilead”, “Casa” e “Lila”) che ne ha decretato l’ascesa sull’Olimpo della narrativa americana. Uscì con il titolo “Housekeeping” nel 1980, ed è stato già tradotto da noi con il titolo di “Padrona di casa” nel 1988. Rappresenta una profonda riflessione, in cui si incontrano fede, racconto biblico, analisi del profondo, racconti d’avventura, noir, e soprattutto una capacità non solo di intuire, ma di dire ciò che è difficilmente accessibile alle umane possibilità di espressione. Due sorelle si trovano a fare i conti con la presenza inquieta di un lago che pervade ogni cosa, grande madre che fa nascere e che però riprende alcune delle creature che ci vivono accanto. Il mistero della morte accidentale e di quella cercata senza una apparente ragione (il nonno nel primo caso, la mamma nel secondo) fa da cornice alla loro storia di formazione, attraversata dall’arrivo di una sorella della madre, Sylvie, che tenterà di accudirle. Ma Sylvie è una vagabonda, lo scopriamo lentamente: dorme vestita, con le scarpe sempre ai piedi, tira i sassi ai cani che abbaiano al suo passaggio, esce all’improvviso per sdraiarsi sulle panchine, frequenta le stazioni dei treni. Questa sua natura crea numerosi problemi alla comunità di gente per bene di Fingerbone, che non vede di buon occhio una educazione apparentemente distratta e “di strada”. In realtà si tratta di una visione diversa della vita, che ha molto in comune con quella, purtroppo obliterata dalle riduzioni cinematografiche, di Pamela Travers e quella di un altro statunitense, da noi ancora sconosciuto, Wendell Berry. Si assiste allo scontro epico, sempre latente nelle comunità umane, tra una vita libera e apparentemente senza senso e una quotidianità domestica fatta di proprietà, di regole, di destini già scritti. In ogni riga di questo davvero sorprendente racconto si avverte una gigantesca energia religiosa, che soffia dove vuole, dal pellegrinaggio paolino di casa in casa alla libertà francescana da ogni costrizione sociale, fino alla ricerca delle radici che talvolta è fonte di dolore. Nulla vi appare fine assoluta, ma viaggio verso un Giardino un tempo perduto.