I centrafricani invitati a deporre nel presepe l’odio e la vendetta

Monsignor Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui e presidente della Conferenza episcopale centrafricana, nei giorni scorsi si è recato in visita nel campo Beal, che accoglie ex combattenti Seleka (circa 850). Successivamente l’arcivescovo ha visitato anche i Balaka: insieme ai Seleka costituiscono le principali forze belligeranti.

La pace per il Centrafrica passa anche da gesti concreti. Quei gesti che sta promuovendo, con grande coraggio, monsignorDieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui e presidente della Conferenza episcopale centrafricana. Nei giorni scorsi si è recato in visita nel campo Beal, che accoglie ex combattenti Seleka (circa 850). Successivamente l’arcivescovo ha visitato anche i Balaka: insieme ai Seleka costituiscono le principali forze belligeranti. “Iniziative – commenta Nzapalainga – che diventano un cammino di costruzione della pace”.

Eccellenza, come è nata l’iniziativa di visitare il campo Beal?
“Ero negli Stati Uniti e sono venuto a sapere del malcontento dei Seleka con relative manifestazioni. Ho espresso il desiderio di andare a visitarli, perché sono persone create a immagine di Dio e meritano rispetto. Un modo di ricordare la loro dignità agli occhi di Dio. Come pastore, volevo soltanto dire loro che Dio non li ha dimenticati e rivelare loro la sua misericordia, che incessantemente considera i nostri peccati per invitarci alla conversione. Ero accompagnato da alcuni cristiani poiché esiste una barriera tra i Seleka e il resto della popolazione in seguito agli ultimi eventi. Era il momento di mettere in pratica il Vangelo: ‘Ero in carcere e siete venuti a trovarmi’. Manifestare il Volto di Cristo alla ricerca della pecorella smarrita”.

Cosa ha trovato nel campo? Quali sono le condizioni di vita e le principali necessità delle persone?

“Ho scoperto una grande miseria. Le persone dormivano sul pavimento. Molti avevano vestiti lacerati. I malati non vengono curati. La razione di cibo è miserabile. Le donne incinte non vengono visitate e molte di loro partoriscono in case insalubri. I bambini non frequentano la scuola. C’è l’erba alta ovunque, con il rischio di essere morsi dai serpenti. Ho sperimentato la misura della loro collera. Allo stesso tempo, una sete di libertà e di pace”.

Pensa che sarà possibile replicare questo gesto in altri campi Seleka o anche Balaka?
“Penso che sia possibile riprodurre la stessa esperienza. Sono stato a visitare i Balaka e martedì 16 dicembre li abbiamo radunati nel monastero per prenderci cura di loro, dare vestiti, cibo, un kit alimentare e offrire loro la possibilità di partecipare a un dibattito e alla Messa. Il 23 dicembre sarò con alcuni cristiani in un secondo campo dei Seleka. Nella prima esperienza, 367 cristiani hanno risposto all’appello. Vogliamo avvicinarli ai loro fratelli per conoscerli, stimarli e amarli. Il Cristo sofferente si presenta a noi attraverso i nostri fratelli. Molti giovani non vengono ascoltati, e noi ci prendiamo il tempo di ascoltarli, di ascoltare i loro sogni infranti. Dietro la loro avventura si nasconde la questione della ricerca della felicità. Una felicità al di fuori di Gesù rimane effimera. Con Gesù, troviamo il senso della nostra vita”.

Queste iniziative possono essere una via per la pacificazione del Paese?

“Queste iniziative sono gocce d’acqua che si riversano nel mare. La pace non è un’utopia. Ogni cristiano è un artefice di pace con le sue parole e le sue azioni. ‘Beati gli operatori di pace’. Spetta ai cristiani lasciarsi conquistare da Cristo e offrire la sua pace agli uomini. Queste iniziative sono l’espressione della nostra fede in Cristo e diventano un cammino di costruzione della pace”.

Attualmente com’è la situazione in Centrafrica?

“La situazione è volatile e precaria. Il governo non riesce a estendere la sua autorità su tutto il Paese. I gruppi armati continuano a seminare la morte uccidendo cittadini pacifici. La paura si legge sui volti delle persone. Le rapine sono diventate moneta corrente a Bangui. La gente è stanca e vuole la pace, ma è ostaggio delle bande armate che usano la violenza per imporsi. I funzionari statali fanno fatica a recarsi al loro posto di lavoro a causa della paura. Nonostante questo quadro, le Ong s’impegnano per cambiare la vita quotidiana dei centrafricani. Osserviamo un timido ritorno ai quartieri abbandonati. Gli incontri di coesione sociale si moltiplicano. Questo mostra il desiderio dei centrafricani di voltare questa pagina oscura del nostro Paese”.

Tra poche settimane sarà Natale, qual è il suo augurio e il suo appello per le prossime festività? Cosa intende dire alla comunità internazionale?
“Natale, Dio viene in Gesù a portare la pace all’umanità. ‘Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che Egli ama’. Quest’anno, i centrafricani sono invitati a venire a deporre nel presepe: il loro odio, il loro risentimento, la loro violenza, la loro vendetta e, in un movimento di contemplazione, a lasciarsi conquistare dalla potenza di Dio bambino per ricevere l’amore, la riconciliazione, la non violenza e il perdono. La comunità internazionale ha il dovere di aiutare il Centrafrica affinché non diventi un covo di ladri, gangster, teppisti. Per questo, dovrebbe incoraggiare le persone di buona volontà, sostenerle per far arretrare il regno del male. La pace nel Paese è innanzitutto un compito dei centrafricani; la comunità internazionale viene per aiutare e non deve mettersi in prima linea. Deve aiutare i centrafricani ad accogliere e appropriarsi di questo processo”.