I cento anni de “Il porto sepolto” di Ungaretti

L’opera di Ungaretti che ha cambiato la storia della poesia.

Ci rinveniamo a marcare la terra
Con questo corpo
Che ora troppo ci pesa

Che cosa strana: una poesia considerata a torto intellettuale e fuori del tempo nasce proprio dal confronto con la realtà, e che realtà: la prima carneficina mondiale. Una poesia peraltro non scritta da uno che se ne stava a casa mentre gli altri rischiavano di essere seppelliti dalla terra sollevata dalle esplosioni (il pericolo più diffuso), ma da uno in trincea, che usciva all’assalto contro le bombe e le pallottole reali, mica quelle poetiche, e poi mangiava quello che c’era, condividendo, lui intellettuale, il suo destino con quello della gente del popolo. Che non lo avrebbe mai letto.
Il fatto è che i cento anni del “Porto sepolto” ci fanno toccare con mano il rovesciamento di alcuni luoghi comuni: se essere fuori dal mondo significa tornare in Italia sapendo di essere arruolati in guerra, di condividere il destino dei semplici, trovare parole poetiche che rifuggano dalle retoriche colte, soprattutto quelle dannunziane, allora Ungaretti era fuori dal mondo. In realtà, l’equivoco nasce dal fatto che il poeta, che era nato ad Alessandria d’Egitto da genitori lucchesi, si era “cibato” di scrittori intellettuali come Mallarmé, che tentavano, con la loro grande e raffinata cultura, di trovare una lingua nuova, mentre lui cercava la semplicità: “Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita” conclude una delle più celebri sue poesie dedicate ad un compagno ucciso in guerra. E non si vergognava, in un periodo di intellettualismi, di raffinatezze anticonformistiche, di attacchi alla tradizione, di manifestare la sua profonda religiosità: “Chiuso fra cose mortali/ (anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?”.
La novità di Ungaretti sta nel saper trovare le parole dell’anima, quelle profonde, non quelle dei classici, perché sapeva bene che qualsiasi cosa – pur geniale – se imitata è ridicola, ma quelle che vengono da un profondo scavo in se stesso, eliminando tutto il superfluo. E soprattutto emerge da questa poesia di cent’anni fa il desiderio di ritrovare l’altro, soprattutto se l’altro significa la semplicità, la verità, non la maschera colta e superba che in quegli stessi anni anche Pirandello andava attaccando: “Nell’aria spasimante/ involontaria rivolta/ dell’uomo presente alla sua/ fragilità/ Fratelli”. Ma Ungaretti possedeva il coraggio di vedere nell’altro Dio. E di enunciarlo a chiare, semplici lettere, nelle sue liriche.
Una poesia non retorica, ricercata, intellettuale, quella di Ungaretti soldato, ma ricerca continua di un senso, cosa non molto di moda in quegli anni, dove trionfava la discesa nella propria sofisticata interiorità, la contemplazione del proprio ombelico, l’analisi profonda, tutte cose interessanti assai ma che rischiavano e rischiano di fare dell’uomo un’isola, bella, dorata, splendente, dove però c’è posto per una sola persona. E allora sai che felicità.