Caffè teologico: la fede minaccia la libertà?

Si è svolto piuttosto animatamente il secondo degli incontri del Caffè teologico, nella sala dell’Auditorium dei Poveri di Rieti.

La fede minaccia la libertà? È stata questa la domanda con cui si è dato avvio all’incontro del Caffè teologico di lunedì pomeriggio 18 maggio presso l’Auditorium dei Poveri di via Garibaldi sottolineando come attualmente sia proprio la fede a costituire il limite con cui la tecnica si trova a confrontarsi nel cercare di proporre e realizzare un progresso infinito che spesso sfugge persino al controllo umano.

Il termine “laico” proviene dal greco e rimanda al concetto di popolo. La laicità è una dimensione costituente dell’essere popolo. Oggigiorno, però, sembra essere ben altro il significato che si attribuisce alla parola “laico”. Esso risale a Jules Ferry, il quale è da molti considerato tra i fondatori della scuola pubblica francese degli ultimi decenni del XIX secolo e colui che ha introdotto nel dibattito filosofico politico il tema della laicità. È stata, infatti, la Francia la nazione che, dopo la seconda guerra mondiale, ha immesso nella sua costituzione il concetto di “Repubblica Laica” attribuendosi così lo stato di imparzialità nei confronti delle varie confessioni religiose. Con “laicità” si intende, generalmente, l’atteggiamento neutro dello stato rispetto alle diverse fedi religiose, dalle quali esso prende le distanze mostrando indifferenza, ostilità o cooperazione, e facendosi comunque difensore della libertà religiosa. Oggi si assiste sempre più, anche in Italia, ad un continuo appellarsi alla laicità dello Stato che altro non vuole essere se non un paventare l’assolutezza della ragione come strumento conoscitivo e fondamento di ogni decisione politica. Si pensa che la fede possa essere una limitazione alla libertà dello stato, una vera patologia dalla quale cercare di debellarsi il prima possibile anche in vista di un progresso umano, scientifico e tecnologico sempre più spedito. Secondo il padre del laicismo moderno, Immanuel Kant, il rimanere ancorati a precetti e formule comportava il voler essere incatenati ai ceppi della minorità. Se si vuole essere liberi, invece, si deve, secondo lui, «fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi». Per Kant, la religione è inerente alla sfera privata del cittadino e non può diventare arbitro delle decisioni politiche, ruolo che appartiene invece alla ragione universale di cui tutti siamo dotati. È la ragione, secondo questo filosofo, ad illuminare il cammino dell’uomo e a dover comportare una purificazione della stessa religione da dogmi e miti. La religione si mostra, per il suo modo di vedere, come qualcosa di pericoloso, in quanto porta ad una dittatura delle coscienze delle persone e ad una loro umiliazione, privandole della responsabilità che scaturisce dal poter scegliere liberamente.

Secondo Kant tutto deve essere sottoposto, nella pubblica piazza, al tribunale della ragione, in quanto è solo quest’ultima a definire ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è diritto e ciò che non lo è. La verità della rivelazione deve essere messa da parte, la fede deve restare, secondo lui, un qualcosa di privato, esclusa dai pubblici dibattiti dello stato a meno che non si riesca a “tradurla” adducendo delle argomentazioni razionali.

Perché fare riferimento a questo filosofo di oltre due secoli fa? La risposta mi pare evidente. Perché quello che viviamo oggi nella nostra società laica non è altro che la realizzazione di quanto egli affermava nel 1784, o, peggio, una sua estremizzazione, dato che Kant non voleva fare a meno del tutto della religione, come invece sembra accadere oggi.

Il ritenere che la fede possa pregiudicare la libertà umana e deviare la laicità dello stato insieme al volersi appellare al solo tribunale della ragione, non fa altro che il fondare un’altra religione, quella che divinizza la ragione non riconoscendone i suoi limiti. Se «vi sono nella religione delle patologie estremamente pericolose, che rendono necessario considerare la luce divina della ragione come organo di controllo» – evidenziava il cardinale Ratzinger nel 2004 – «vi sono pure delle patologie della ragione non meno pericolose, ma ancora più minacciose se viste nella loro potenziale efficienza: bomba atomica, uomo come prodotto».

Queste patologie della ragione ci fanno comprendere che il volersi appellare da parte dello stato alla sola universalità della ragione è una mera astrazione, un’utopia irrealizzabile. Lo stato laico deve mettersi in ascolto delle grandi tradizioni religiose dell’umanità, deve cercare di imparare sempre più una correlatività tra fede e ragione che è tutt’altro che deleteria, essendo la vera manifestazione di una libertà autentica. Fede e ragione hanno ancora bisogno l’una dell’altra, dato che l’essere umano non potrà mai dirsi neutrale ma sempre il risultato di una loro armonica correlazione. E questo vale anche per l’ateo, ossia per colui che appunto crede che Dio non esiste, o per l’agnostico, per colui che, nella sua vita, interroga la sua fede ricercando risposte.
La sfera pubblica è una commistione di ragione e religione, in quanto di essa fanno parte le persone ed il concetto di “persona” non è di natura giuridica ma morale e religiosa. E la persona quando esercita la sua libertà non può rinnegare la sua fede, in quanto non può rinnegare se stessa. Semmai trova proprio nella sua fede, invece, uno strumento di conoscenza della realtà, un aiuto e una luce, che non contraddice l’esercizio della sua razionalità, ma lo avvalora, qualificando l’esercizio della sua stessa libertà. La fede non è uno strumento accessorio, così come non lo sono gli occhiali o le lenti a contatto per un miope o per un presbite. Può infatti la sola ragione decidere cosa sia diritto e cosa non lo sia? E poi quale ragione? Quella della maggioranza? E se cambia la maggioranza? Uno stato laico democratico può fondare il proprio diritto solo sulla volontà della maggioranza? È questo un modo giusto di intendere la democrazia? Fin troppe volte la storia ha mostrato come le maggioranze possano essere cieche ed ingiuste!!!

Ed allora, in uno stato laico, si chiedeva Ratzinger: «l’eliminazione graduale della religione, il suo superamento, dev’essere considerato come progresso necessario dell’umanità, affinché essa giunga sulla strada della libertà e della tolleranza universale, o no?». La società di oggi ama definirsi civile e tollerante, ma in realtà testimonia sempre più una grande intolleranza verso la dimensione religiosa. L’uomo che vuole professare pubblicamente la propria fede avvalendo delle argomentazione razionali che ne rendano ragione è il personaggio scomodo che non è bene invitare nelle tavole rotonde o nei dibattiti pubblici. La dimensione religiosa può certamente essere vissuta nel privato e nel “segreto della camera” di ognuno, ma deve stare bene attenta dal

sedersi nei “salotti culturali”. Nello stato laico, come oggi è generalmente considerato, il credente non può fare cultura, non può possedere una propria visione del mondo, non può essere considerato un interlocutore valido e alla pari. Nella pubblica piazza l’intellettuale credente non deve essere considerato come un “alienato” ma come quel laico in cui fede e ragione dialogano insieme nella ricerca della verità; in lui la libertà si sente limitata ma non monca, qualificata ed animata da una sapienza che è passione per l’essere umano e per Dio e non mera ricerca di una mai soddisfatta volontà di potenza che ha nella ricerca scientifica la sua effige.