Brexit con occhi britannici. Booth: «occasione per rinnovare la nostra democrazia e l’economia»

L’economista della st. Mary’s University di Londra, che ha votato per restare nell’Ue nonostante tanti dubbi, ritiene che non ci saranno ripercussioni negative per il suo Paese. E analizza i riflessi del voto sulle classi sociali meno abbienti e sugli stranieri arrivati nel Regno Unito. Sui negoziati per il distacco tra Londra e Bruxelles prevede tempi lunghi

Cosa cambia politicamente ed economicamente con il Brexit sia per il Regno Unito che per l’Unione europea? L’abbiamo chiesto a Philip Booth, cattolico, docente di finanza, politica pubblica ed etica alla st. Mary’s University di Londra, il quale il 23 giugno ha votato per rimanere nell’Unione europea, benché fosse stato incerto fino all’ultimo momento. All’indomani del voto si dice “deluso” ma, nello stesso tempo, anche “eccitato”. “La gamma di scelte politiche che abbiamo è stata ampliata”, spiega al Sir. “Si comincia una nuova battaglia per rinnovare la nostra democrazia e liberalizzare l’economia e, forse, poter diffondere la prosperità in un mondo dove non funziano i mille regolamenti che piacciono così tanto a Bruxelles”.

In crisi Tory e Labour. Dopo le dimissioni del premier Cameron non vi saranno nuove elezioni generali, secondo Booth ma “è probabile una lotta intestina, dentro il partito conservatore, tra chi era a favore del Brexit come Boris Johnson e chi era contro come Cameron”. Aggiunge:“L’aspetto più interessante dello scenario politico è che mentre il partito conservatore è diviso a metà dal risultato del referendum, il partito laburista esce sconfitto perché si è battuto, fino all’ultimo momento, contro il Brexit”.Una situazione di crisi “aggravata dal fatto che una buona parte dell’elettorato Labour ha votato a favore dell’abbandono dell’Unione europea e, quindi, contro la sua leadership”.

Libero commercio. Booth non prevede svantaggi, a breve periodo, per l’economia britannica. “Contribuiamo in modo sostanzioso alle finanze dell’Unione europea e

tutti questi soldi, se ce ne andiamo, rientreranno nelle nostre casse

e potranno essere usati sia per abbassare le tasse che per altri obbiettivi del governo; ma la questione più importante riguarda gli investimenti e il commercio”, spiega il professor Booth, secondo il quale esistono due scuole di pensiero rispetto al modo di operare dell’Unione europea. “C’è chi pensa che la Ue promuova il libero commercio britannico, rimuovendo tariffe e barriere, e c’è chi pensa che, al contrario, introduca alte tariffe che rendono più difficile, per noi, commerciare con Paesi come Australia e Nuova Zelanda. L’Ue è sempre meno importante economicamente e, di conseguenza, chi segue la seconda scuola di pensiero, pensa che vi siano molti vantaggi da guadagnare dal fatto che il Regno Unito abbia l’opportunità di avviare accordi di libero commercio con una serie di Stati che non appartengono all’Unione europea”, continua Philip Booth.

Cosa accadrà ai più poveri? Secondo l’esperto di economia dell’università cattolica di Londra le categorie sociali meno avvantaggiate o più povere, alle quali viene attribuita la maggioranza del voto “leave” nel referendum, “potrebbero guadagnare o anche perdere dal fatto che la Gran Bretagna esca dall’Unione europea”. “Se dovessimo ridurre le tariffe sul cibo, i più poveri ne trarranno beneficio così come potrebbero essere avvantaggiati se il nostro contributo al budget europeo rientrasse in patria e venisse investito a loro vantaggio”.

Stranieri: dentro o fuori. E gli europei che risiedono nell’isola? Booth non riesce a immaginare che “il governo britannico faccia tornare a casa europei che vivono qui da anni o chieda loro visti speciali per rimanere”, ma pensa che vi sia un rischio reale che un alto numero di europei vogliano approfittare del periodo di due anni, durante i quali la Gran Bretagna negozierà un nuovo accordo con l’Ue prima di chiudere le frontiere, cercando di entrare nel Regno Unito e, in questo caso, il governo britannico dovrà intervenire”.

 Gli esiti dei lunghi negoziati. “È probabile che passino anche cinque anni prima che diventi chiaro qual è il nuovo rapporto che la Gran Bretagna ha con l’Unione europea e quali politiche immigratorie e doganali dobbiamo implementare per riuscire a commerciare con gli altri Paesi del mondo e, in questo periodo di tempo, gli investimenti nel Regno Unito verranno ridotti. Eppure

dubito che vi sarà una corsa, soprattutto tra i servizi finanziari che sono così importanti per la nostra economia, a trasferire i loro quartieri generali altrove nella Ue.