“Barriere” di Denzel Washington: un racconto di asciutto realismo

Dopo il successo a teatro, Denzel Washington e Viola Davis portano al cinema il dramma Premio Pulitzer di August Wilson “Fences”, in Italia “Barriere”, film che è stato tra i protagonisti della notte degli Oscar

Con Barriere (“Fences”) Denzel Washington firma la sua terza regia cinematografica, che lo ha portato a concorrere agli Academy Awards 2017 con quattro nomination, tra cui miglior film, miglior attore e miglior attrice non protagonista Viola Davis (che quasi certamente si aggiudicherà l’ambita statuetta). L’opera è frutto di un sodalizio artistico già collaudato tra Washington e la Davis, che hanno interpretato il testo nel 2010 a Broadway, vincendo anche il Tony Award, massimo riconoscimento teatrale. L’opera “Fences” – da noi tradotta con il titolo “Barriere” – è un lavoro del drammaturgo August Wilson nel 1983, insignito del Premio Pulitzer.

Una storia familiare tra cicatrici e rimpianti

Siamo a Pittsburgh negli Stati Uniti degli anni Cinquanta. Troy (Denzel Washington) è un netturbino sposato con Rose (Viola Davis); la coppia ha due figli, Cory (Jovan Adepo) e Lyons (Russell Hornsby). Troy conduce la sua esistenza in maniera ritirata, proteggendosi dal ricordo di un passato giovanile in cui si è messo in gioco nello sport, con il desiderio di diventare un campione di baseball. La quotidianità vacilla quando il figlio Cory gli rivela il desiderio di voler abbandonare il lavoro per inseguire il sogno di una carriera nello sport. Una storia che sembra ripetersi, per Troy, che non vede altro che sofferenza e nuove delusioni. Pertanto si oppone con ogni mezzo alla scelta del figlio, avviando una serie di pesanti contrasti nel tessuto familiare. La situazione degenera quando Troy confessa alla moglie Rose di avere un’altra relazione, da cui nascerà presto un figlio.
Se Ingmar Bergman ha esplorato le crepe di una relazione destinata allo smarrimento con “Scene da un matrimonio” (“Scener ur ett äktenskap”, 1973), qui Denzel Washington muovendosi sul tracciato dell’opera di August Wilson affronta il contesto socioculturale di una famiglia afroamericana nell’America degli anni Cinquanta, un Paese ancora incapace di offrire uguaglianza e parità di diritti ai cittadini. Troy si sente un subalterno, un emarginato sociale, cui è stato impedito un sogno in gioventù, l’affermazione sportiva. È amareggiato e trova un modo di condurre la propria esistenza in maniera tranquilla, senza sporcarsi con la vita. Si tiene ai margini e così facendo, però, “avvelena l’acqua” della propria casa, minando il rapporto con i figli e con la moglie, l’unica capace di capirlo e di stargli accanto.
E sarà proprio la moglie Rose a subire il colpo più duro, il tradimento e le conseguenze del gesto. È una storia che tocca anche le note della misericordia, soprattutto nella prospettiva di Rose, che accetta di accogliere la figlia di Troy, avuta da un’altra donna, di crescerla nella sua casa, non trovando però il coraggio di perdonare il marito.

Un racconto di asciutto realismo

Convince lo stile narrativo di Denzel Washington, che ricostruisce con realismo e attenzione il contesto politico, sociale e culturale statunitense dell’immediato dopoguerra. La sua regia è salda, in un mélo che potrebbe sfuggire al controllo, virando nel sentimentalismo più facile, ma invece mantiene un equilibrio tra realismo e denuncia. Da sottolineare soprattutto le interpretazioni dei due protagonisti, Denzel Washington e Viola Davis, che offrono una prova attoriale di alto spessore, costituendo in parte l’elemento sui cui poggia con efficacia il film. Un’opera adatta certamente per dibattitti, per capire l’America degli anni Cinquanta in cui per le famiglie afroamericane non si prospettava alcuna possibilità di emergere dalle periferie della società.

(di Massimo Giraldi)