L’arte povera

Il testamento spirituale di Jannis Kounnelis

Nel 1967 un gruppo di pittori e scultori italiani, quali Alighiero Boetti, Pino Pascali, Giulio Paolini, Luciano Fabro, guidati dal critico Guido Celant, diedero vita a un particolare movimento denominato “arte povera”. Il gruppo nasceva in aperto contrasto con la società del tempo, corrosa tra industrializzazione e consumismo, e si opponeva all’arte tradizionale, considerata borghese ed esclusiva, espressione proprio di quel mondo. Questi artisti privilegiarono per le loro creazioni i materiali poveri come ferro, legno, plastica, stracci, scarti industriali, tutti oggetti privi di una particolare e sofisticata lavorazione, esposti semplicemente nella loro forma primitiva, al fine di evocare le strutture originarie della società stessa.
Tra di essi figurava un ragazzo di diciannove anni, Jannis Kounnelis, greco di nascita e romano di adozione, che sarebbe poi diventato uno tra i più noti artisti contemporanei. Simpatico, ottimista, amante della poesia e della vita, Jannis evocava attraverso le sue opere gli antichi ideali della cultura mediterranea, ovvero quell’idea primigenia di libertà e umanesimo che sembrava persa tra il meccanismo degli ingranaggi moderni. Come tutti gli esponenti dell’arte povera prediligeva l’uso di materiali grezzi, o poco lavorati, come pietre, carbone, ferro, vetro, ceramiche, iuta, oppure di animali veri come i cavalli e farfalle. Ciò che il maestro ricercava nella semplicità degli oggetti era la storia che ogni elemento era capace di raccontare al di là della consistenza materica. Le pietre ad esempio evocavano l’essenza della costruzione, dalla lavorazione della roccia si realizzano case, templi e monumenti. Gli elementi potevano essere combinati tra loro e aprire la mente a nuovi capitoli della storia dell’umanità, come il carbone ed il ferro, il sogno operoso dell’Ottocento. Oggetti semplici che messi in relazione ripercorrono le vicende del progresso umano, quando le navi con i loro comignoli sbuffanti solcavano i mari ed i treni a vapore correvano lungo le rotaie. Inoltre le istallazioni concettuali di Kounnelis, proprio per la loro consistenza materica e ideologica, dovevano sia coesistere con l’ambiente in cui venivano esposte che assurgere ad elemento polarizzatore dello spazio, spezzando proprio quella distanza che intrinsecamente si crea tra l’opera d’arte ed il fruitore.
Su questa linea di pensiero si comprende anche la scelta di utilizzare materie deteriorate, poiché esse rappresentano il reale ciclo della vita sottoposta allo scorrere incessante del tempo, un tempo capace di trasformare, invecchiare, consumare e, appunto, deteriorare le cose. Ma se il peso del tempo incide sugli oggetti, l’uomo, elemento attivo nella storia, deve essere invece capace di ricordare e attraverso la memoria saper leggere in maniera positiva l’oggetto. Kounnelis con la sua vitalità, con la sua poetica visione della vita, riusciva a trasmettere alle sue installazioni una profondità scenografica e drammaturgica, ma allo stesso tempo queste si aprivano anche ad una dimensione quasi magica e onirica. Ricordiamo su tutte la famosa “Porta del Giardino dei Semplici” per la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Un intervento raffinato ed elegante, dove il ferro viene sensibilmente lavorato e diventa flessuoso e morbido, aggrovigliandosi su se stesso in volteggi delicati, come i rami delle piante rampicanti. A dare tonalità al grigiore brunito dei rami metallici, sono degli inserti di vetro colorato e altri materiali cromatici. Un espediente concettuale che rende la porta elemento di confine tra misticismo religioso e visione terrena.
L’innovazione del linguaggio artistico del maestro dell’arte povera consisteva proprio in questo, nel ricondurre l’arte ad un modello antiborghese e antieleitario, e la creazione artistica ad un momento vissuto e condiviso, ma soprattutto ad un’immagine reale e viva. Era questa l’arte di Jannis Kounnelis, questo il suo testamento spirituale come uomo protagonista della storia.