A Greccio il primo presepe. E il mistero dell’asino e del bue

(di Eraldo Affinati, da «Il Venerdì») Per andare a Greccio, dove nel 1223 nacque l’idea del presepe, partendo in automobile da Roma ci sono due possibilità: o si percorre la via Salaria rischiando di prendersi almeno un paio di multe per eccesso di velocità, vista la posizione strategica dei dispositivi elettronici lungo la vecchia consolare; oppure si compie un giro più lungo ma forse meno dispendioso uscendo al casello di Orte in direzione di Terni per poi ridiscendere giù verso forre e canaloni. San Francesco, l’inventore della rappresentazione della Natività, non aveva di questi problemi: lui nell’alta Sabina, pur essendo fragile e malato, ci arrivava a piedi attraverso sentieri sconnessi dormendo dove capitava in giacigli improvvisati.

Come riuscisse a superare gli stenti è difficile dire: stiamo parlando del più grande italiano, non solo perché patrono ufficiale del Belpaese. Dove comincia, ad esempio, la nostra letteratura? I manuali lo testimoniano: dal Cantico delle creature. «Altissimu, onnipotente, bon Signore, / Tue so’ le laude, la gloria e l’honore et onne benedictione». A parte questo, non potremmo neppure concepire la cultura occidentale senza di lui. Per non parlare della Chiesa. Giotto e Dante l’avranno pure travisato (lo sostengono in tanti), ma Bergoglio, scegliendone il nome per salire al soglio pontificio, ha dimostrato una sapienza che nessuno dei suoi predecessori aveva mai avuto.

Così quando parcheggio davanti alla Pro Loco e affronto le scale che conducono al santuario, il primo a cui penso è proprio il Poverello di Assisi che, seguendo il racconto biografico di Tommaso da Celano, nel momento in cui giunse da queste parti, chiamò a sé Giovanni Velita, un ricco signorotto locale, e gli disse: «Se vuoi che celebriamo a Greccio il Natale di Gesù, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno fra il bue e l’asinello».

Frate Luciano, padre guardiano dagli occhi accesi carichi di passione, mi guida sicuro in una specie di grotta scavata nella roccia le cui pareti trasudano di storia: le cellette dei monaci, gli affreschi del Santo, l’eremo, il refettorio, l’oratorio. Non faccio quasi in tempo ad affacciarmi sulla spianata sottostante dove ogni vigilia viene celebrato uno spettacolo che richiama migliaia di persone da ogni parte del mondo, ed ecco davanti a me Domenico Pompili, vescovo di Rieti, insieme al quale rifletto sulla potenza ancora viva dell’invenzione francescana. Dopo aver parlato con lui, siedo al tavolo del convento per salutare i protagonisti contemporanei della famosa rappresentazione teatrale.

Paolo Fosso, il regista, mi racconta il suo lavoro quasi d’antropologo: magari gli attori professionisti mostrassero la stessa disponibilità a recitare al freddo e al gelo di questi paesani legati al loro territorio! Dobbiamo pensare che qui da una generazione all’altra ogni famiglia resta coinvolta in quello che, seppure impropriamente, viene definito “il presepe vivente”. In realtà si tratta della rievocazione all’aperto del testo del Celano. Una quinta scenografica che affonda le sue radici nel passato più autentico di questo villaggio ai confini del Lazio che sembra scolpito nella montagna. Stefano Martini ricorda le fiaccolate che si facevano negli anni Settanta, coi barattoli raccolti dalle discariche e legati dal fil di ferro. I figli ascoltavano le parti mandate a memoria dai padri suggerendo, se necessario, i passi dimenticati. Lui recitava quasi sempre il ruolo di pastorello perché il montone e le calzamaglie non avevano un buon odore e pochi le volevano indossare. Nei secoli Greccio, come ci tiene a precisare il sindaco, Antonio Rosati, ha mantenuto le proprie usanze, alla maniera di «un nido, una tana, una cuccia».

Finora pare non ci sia stata la strumentalizzazione commerciale talvolta presente nei luoghi di devozione religiosa. E nemmeno la caduta estetizzante tipica dell’evento mediatico. Qui San Francesco è rimasto nel sangue degli abitanti: dai bambini agli adulti. Il problema semmai, come sempre, sono gli adolescenti: che vanno riconquistati con un linguaggio nuovo capace di attrarli. Del resto il messaggio del figlio di Bernardone, ora più di ieri, non è una caramella da sciogliere in bocca. Per quanti volessero apprezzarne la carica eversiva, consiglio il bel libro di Cinzia Mercuri dal titolo emblematico: Francesco d’Assisi. La storia negata (Laterza).

Ho l’impressione che lo stesso vescovo, uomo sensibile e colto, su questo punto sia d’accordo con me. È sua l’equivalenza: «Greccio sta ad Assisi come la Porziuncola alla Basilica di Santa Maria degli Angeli». Allora, se lo spirito del presepe è quello di riportare tutto a terra, nel fiato caldo della mangiatoia, lasciandoci alle spalle lo sfarzo e la secolarizzazione, gli chiedo come sia possibile farlo nella diocesi che lui dirige. La risposta, scaturita dall’esperienza del dolore quotidiano, assomiglia a un referto: «Il terremoto ha spinto tutti noi nella direzione giusta».

Come ci ha spiegato Chiara Frugoni, una delle massime esperte del Beato, il bue e l’asinello non sono presenti nel Vangelo, bensì nella tradizione apocrifica, indicando rispettivamente il popolo ebraico e quello pagano: secondo tale accezione, il muso degli animali sprofondato dentro al fieno della stalla andrebbe inteso come l’auspicio cristiano, quando i popoli del Pianeta, finalmente riuniti, riceveranno l’Eucarestia. I tempi di Francesco erano tutt’altro che propizi a tali rinnovamenti palingenetici: gli uomini si sbudellavano gli uni con gli altri in guerre senza fine, come hanno sempre fatto e continuano a fare. I Crociati tagliavano le teste per liberare il Santo Sepolcro; gli eserciti comunali non esitavano a decimarsi; gli eretici venivano massacrati. Francesco da giovane, prima di scendere da cavallo e baciare il lebbroso, aveva impugnato le armi contro Perugia e non è affatto escluso che, nel tumulto bellico, abbia ucciso qualche avversario.

Tutto questo rende ancora più rivoluzionario e coraggioso, oltre che di straordinaria attualità, il suo viaggio in Egitto per parlare direttamente col Saladino, il quale lo accolse nel campo saraceno gentile e rispettoso. Un “a tu per tu”, quello voluto da Francesco, di cui sentiamo il bisogno in questa fine del 2017: perenne inascoltata esigenza del camminatore scalzo, profeta d’umanità liberata, cristiano radicale. Il nostro grande santo avrebbe voluto vivere in mezzo ai musulmani senza pretendere di evangelizzarli, come nel Novecento farà Charles de Foucauld, cercando i punti di contatto e non le divisioni, con una lungimiranza che noi stessi ancora adesso, credenti e non credenti, stentiamo a realizzare. Ecco perché l’intuizione del presepe si configura anche come un gesto profondamente politico.

Qualche anno dopo essere tornato indietro, Francesco spuntò da queste alture con l’intenzione di rifare Betlemme a Greccio. Perché proprio qui? Sin dai primi giorni, vivendo nell’eremo dove in seguito fu edificata la piccola cappella, aveva ammirato la semplicità degli abitanti, la verità anche rozza che essi incarnavano, ma priva di inutili sofismi. A loro decise quindi di donare la visione del Dio che diventa uomo e, invece di scegliere per sé uno scranno prestigioso da cui dirigere le operazioni, apre gli occhi nella paglia sotto le stelle che avevano orientato i Re Magi. Sarebbe questo il nucleo incandescente del presepe dettato dal Poverello la cui predica incendiò l’animo semplice dei paesani. Tre anni dopo Francesco morirà pagando il prezzo più alto: quello dell’incomprensione e del tradimento cui sembrano essere destinati tutti i capi carismatici, a partire da Cristo Crocifisso.

Come dire: la Terra Santa, prima ancora che in Palestina, dev’essere ovunque, soprattutto dovremmo inciderla nel nostro cuore. Al tempo della quinta Crociata, proclamare tale convinzione significava mettersi a rischio. Ma in fondo oggi non è diverso. Sarebbe bello se i giovani figuranti che sfilano di fronte a me avessero introiettato il medesimo spirito aperto e disinteressato: osservo Massimiliano e Serena Impeciati, fratello e sorella, che sono i popolani, e lo spero. Christian Leoncini, impegnato come araldo, lo lascia credere. Ma soprattutto Aurora Capriolo, la straccivendola, dunque l’emarginata, diciannovenne iscritta alla facoltà di psicologia, sembra poter raccogliere il testimone della tradizione, considerato il disappunto che non sa trattenere quando lamenta le difficoltà incontrate nel coinvolgimento dei suoi coetanei.

Salgo nel centro storico per tirare le fila di questa giornata trascorsa in uno dei borghi più belli d’Italia, secondo la definizione che di Greccio spesso viene data. Un nodo di case legate una all’altra sotto la cintura della scarpata da cui scese il fraticello malandato, con la vista compromessa e il fegato a pezzi, ormai quasi al termine della sua vita inattesa e folgorante. Secondo una vecchia leggenda popolare, che ogni venticinque dicembre continua a passare di bocca in bocca nella Valle del Santo, Francesco incontrò un fanciullo a cui consegnò un tizzone chiedendogli di lanciarlo in aria. Il pezzo di legno cadde proprio nel luogo dove poi è sorto il santuario, a una distanza tale che varrebbe la medaglia olimpica per qualsiasi giavellottista. Sorrido dentro di me: se accendiamo i lumicini sotto Babbo Natale, perché non possiamo credere anche a questo?

Dopo aver pranzato insieme ai frati, avevo chiesto a ognuno di loro di raccontarmi come vive il sentimento per me più originale della sensibilità francescana: la letizia. Frate Guido lo ha collegato all’umiltà: il richiamo dell’ultimo posto. Frate Pasquale ha fatto riferimento alla volontà di sdrammatizzare gli eventi che ci capitano nel corso dell’esistenza. Frate Stefano ha parlato del cuore di Gesù. Frate Ezio ha confessato che per lui questo sentimento coincide con il desiderio di essere perdonato. Frate Luciano sostiene che la vera letizia è quella che ti fa restare sereno in mezzo alle controversie. Il presepe di Greccio riassume tutte queste accezioni: è un fuoco che scalda senza scottare. Il tempo dell’esultanza nella veglia solenne che annuncia il giorno nuovo.