76. “Deus caritas est”. «L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo»

«L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona».

Riprendiamo i nostri approfondimenti dopo la pausa estiva continuando a riflettere sulle indicazioni che emergono dalla “Deus Caritas est” di Papa Benedetto XVI. Siamo giunti al nostro 78° articolo dedicato alla Dottrina Sociale della Chiesa e ricordiamo ai nostri lettori che tale rubrica tenta, al meglio, di essere fedele ai documenti che commenta individuando aspetti e temi che si crede opportuno sottolineare.

Senza quindi pretese di completezza ma con un deciso spirito attento a rilevare e valorizzare le eventuali critiche al lavoro svolto, inizia un cammino in piena continuità con quanto fatto, nel solco della dimensione di servizio che caratterizza l’operato di chi offre quanto può per la diffusione della Buona novella, di chi cerca di superare difficoltà, polemiche e problematiche che spesso fissano il nostro sguardo nel passato, non aiutando ad andare oltre il proprio orizzonte. Crediamo invece fino in fondo in quel famoso «… prendere il largo» che tanto entusiasma il popolo di Dio. Eccoci quindi a riprendere il filo della “Deus Caritas Est” e la citazione posta in apertura richiama i temi trattati.

L’accento è posto sul valore e l’interpretazione dell’azione pratica riferita alla dimensione del dono e del sollievo dell’altrui sofferenza. Discorso apparentemente semplice se ci si ferma alla già importante considerazione per cui tante persone “alleviano” il proprio senso di colpa offrendo propri beni materiali o qualche moneta ai più sfortunati. In tal caso si potrebbero approfondire questioni di carattere morale che certamente metterebbero in luce quanto siano simili gli uomini a tutte le latitudini.

Non c’è bisogno di scomodare una fede o un sistema religioso per capire le dinamiche che spingono gli uomini a fare del bene: l’empatia, la sofferenza personale, l’affermazione di sé, elementi di natura egocentrica e narcisistica nonché la ricerca di affermazione e accettazione nell’ambito del proprio contesto sociale di appartenenza sono solo alcuni degli aspetti che permetterebbero di spiegare e capire i comportamenti umani. L’Enciclica va oltre questi fattori, indica un’idea ben precisa dell’amore che vive nel cuore dell’uomo e che tutti siamo chiamati a riconoscere e incarnare. È l’incontro con Cristo Signore che anima l’unico vero modo di donarsi all’altro, non ci sono altre letture convincenti perché queste pagano il prezzo del limite della natura umana, limite invalicabile se l’uomo non è “traghettato” dallo stesso Signore Gesù.

Si tratta di condividere con il Signore il suo stesso orizzonte, donarsi personalmente e senza riserve, in questa prospettiva non importa se la “donazione materiale” è cospicua oppure è banale, perché si dona la propria umanità, tutto se stessi, questo è il limite. Cambia quindi la prospettiva e ci si inoltra nel campo apparentemente poco comprensibile che spinge una vedova a gettare nel tesoro del tempio tutto quanto possiede, ovvero pochissimi spiccioli. Questi spiccioli rappresentano la nostra umanità se confrontati con l’immensa saggezza e carità divina. L’indicazione è chiarissima: cosa conta di più, fermarsi e parlare con un povero, un debole, una persona sola, un anziano, un malato, oppure preparare per lui/lei un letto perfetto, un pasto eccezionale, magari anche un vitalizio, una stanza a cinque stelle in una meravigliosa residenza per anziani, e evitare di donare noi stessi, di condividere la nostra umanità con chi è in una situazione di sofferenza, evitando cioè «(…) un partecipargli me stesso».

Al contrario, il dono non deve umiliare , «(…) devo essere presente nel dono come persona». Dare quindi qualcosa che ci appartiene ma anche e soprattutto noi stessi. In questa direzione meriterebbe un approfondimento la tematica legata alla delicata ricerca che molti giovani fanno di persone in grado di aiutarli a crescere e scoprire se stessi e la propria vocazione. Fermarsi alle omelie è forse un po’ fermarsi all’azione pratica, sporcarsi le mani significa trovare il tempo per un accompagnamento vero e concreto, una forma di carità che oggi manca e che anche il mondo adulto affannosamente, purtroppo, richiede. Ma quali problematiche una tale “assenza” nasconde ?