Welfare: la ritirata strategica dello Stato dal mondo dei servizi

Il processo di indebitamento progressivo ci ha portati sulla soglia del crac di bilancio e ci ha resi sorvegliati speciali delle autorità europee. Con il rischio, concreto, di spericolate manovre speculative ai danni dell’intera area euro. Ora si cercano le forme del risanamento, che vanno però trovate all’interno dello stesso sistema di assistenza.

Welfare è un termine inglese che significa: benessere. E il welfare state è quel sistema sociale che vuole garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili. È un frutto del Novecento, quando lentamente le società europee passarono da uno stato di guerra continuo, a quello di crescita e sviluppo nella pace. Basta soldi ad eserciti ed armamenti: con le risorse pubbliche si finanziarono ospedali, scuole, pensioni.

Un bel progresso, che ha portato diversi Paesi europei a vivere in uno stato di… benessere mai conosciuto prima nella storia, e poco o punto sperimentato dalle altre nazioni del mondo pure oggi. Anche in Italia lo Stato sociale si è rapidamente trasformato in welfare (ad un certo punto abbiamo denominato così pure un Ministero), cioè in un insieme di conquiste – qui le chiamiamo “diritti” – finanziate in tutto o in parte dal gettito fiscale. Quindi sanità semi-gratuita, farmaci calmierati, obbligo scolastico sempre più esteso, forze di pubblica sicurezza (dalla polizia ai vigili del fuoco), assistenza sociale agli inabili al lavoro, sostegno più o meno corposo alla previdenza individuale, ai redditi dei disoccupati, ecc.

Insomma, lo “Stato”. Anche se poi si articola in diversi enti territoriali, o agisce con altre articolazioni.

Tralasciando le esperienze di welfare di altri Paesi europei, concentriamoci sulla nostra: si sviluppa nella seconda metà del Novecento (prima c’era soprattutto tanta carità di matrice cattolica); ha un formidabile impulso tra gli anni Sessanta e Settanta. In pochi decenni siamo passati dal quasi niente pubblico ad un welfare assai simile a quelli nord europei, almeno in quantità di risorse impiegate.

E qui sta il punto: non le avevamo le risorse. Insomma, non c’erano i soldi per fare tutte quelle belle cose che sono state fatte. Per averli, lo Stato ha lentamente ma progressivamente alzato le tasse, sia sul lavoro (Irpef) sia sui consumi (Iva, accise). Ma il fabbisogno era maggiore, e tra l’altro l’inclinazione a pagare le tasse (e a riscuoterle) molto bassa.

Quindi, ci si è indebitati a rotta di collo.

Se l’Italia dei primi anni Sessanta era un esempio di virtù economiche per l’intero mondo occidentale – e la lira vinceva l’Oscar delle monete -, già nel 1970 il debito pubblico partiva nel suo decollo: 14 miliardi di euro, il 40% del Pil italiano. Niente, in confronto ai 118 miliardi del 1980 (58% del Pil, comunque ancora dati sostenibilissimi) e soprattutto al disastro degli anni Ottanta. Che si concludono con un debito a 667 miliardi di euro e un’incidenza sul Pil del 94.8%. Quando la Prima repubblica naufraga – tra il 1992 e il 1993 -, siamo già a 850 miliardi e quota 100% già superata.

Da lì inizia una maggiore attenzione ai nostri conti pubblici, cosa che non impedisce al debito pubblico italiano di raggiungere gli attuali 2mila miliardi di euro e il 127% del Pil. L’Europa – l’eurozona e i tedeschi in particolare – ci ha imposto di diventare virtuosi: va contenuto ai minimi il deficit di bilancio (cioè spendere più di quanto s’incassa); va ridotto a marce forzate il debito stesso. Lasciando stare le altre implicazioni di queste decisioni, rimane un dato di fatto: lo Stato non può più spendere soldi che non ha. Ma il fatto è che la sua struttura di spesa è tale per cui le sue risorse non bastano.

Il precedente governo ha agito un po’ sul fronte delle uscite (la stretta sulle pensioni è stata radicale), molto su quello delle entrate: siamo al massimo livello di tassazione della nostra storia, un nodo scorsoio che non può essere stretto ulteriormente.

Le soluzioni sono da scuola elementare: o ci si indebita di più, ma non ci è concesso; o si prelevano più soldi dalle tasche dei cittadini, ma le controindicazioni sono troppe e troppo importanti; o si taglia la spesa. Sherlock Holmes direbbe che l’unica strada percorribile è la terza.

Ma “tagliare le spese” significa tagliare i servizi, arretrare il welfare italiano. In realtà – in modo convulso, disordinato, a macchia di leopardo – da tempo si sta cercando di razionalizzare la spesa. Si sono chiusi gli ospedali minori; sono stati introdotti ticket sempre più onerosi anche per dissuadere il fenomeno delle analisi mediche inutili; è stato bloccato il turn over dei dipendenti pubblici; ridotto il loro stipendio; è stata spostata l’età pensionabile di alcuni anni; soffocate le spese dei Comuni (che ora faticano a pagare i trasporti scolastici e le scuole d’infanzia). E altro ancora.

Ma non è niente, rispetto a quello che il Governo – questo o un altro – dovrà fare da qui a poco. Per quanto circoscritta, la dinamica della spesa pubblica continua a crescere, anche perché ha una colpa originaria: lo Stato, in buona sostanza, non sa come spende i suoi soldi. Non lo sa. Mille rivoli che si sparpagliano tra ministeri, enti pubblici, enti territoriali e quant’altro, con modalità da far rizzare i capelli. Figuriamoci se lo Stato sa se quei soldi li spende bene, con profitto, con l’ottenimento degli obiettivi prefissati.

Come si vede, di lavoro da fare ce n’è una valanga. E, a prescindere da questo, c’è da gestire una ritirata strategica (ora è solo tattica) dello Stato dal welfare, che in inglese significa anche: sussidio pubblico, e spesso in questo s’è trasformato.

A questo punto sorge però un altro quesito, al di là di quanto debba spendere: ma è veramente necessario che sia lo Stato ad accollarsi il peso – e la gestione – del welfare italiano? Possono fare altri al posto suo? Possono fare meglio? E lui, lo Stato, lo permetterà?