Viaggio nella “riforma Fornero”. Prima parte

Il 3 luglio scorso è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale la legge n.92 letteralmente denominata “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” e più nota come “riforma Fornero”. È stata approvata con la fiducia prima al Senato e poi alla Camera, a fronte dell’impegno del Governo ad apportare modifiche, da introdurre già con il decreto legge Sviluppo. Il principale scopo della legge è senza dubbio quello di dimostrare, nel pieno della tempesta dei mercati finanziari, la volontà riformatrice del nostro Paese, ma con la consapevolezza che per un mercato del lavoro dinamico ed inclusivo occorrono adempimenti più leggeri e sistemi decisionali più certi, passeremo in rassegna alcune novità della legge.


 

Primo articolo

(Il nuovo lavoro part-time con qualche “complicazione” in più)

Anche la riforma Fornero riconferma la mozione di principio che il lavoro a tempo pieno e indeterminato resta la forma predominante del rapporto lavorativo.

Rispetto al precedente regime normativo, che imponeva la motivazione al contratto a tempo determinato, la nuova legge consente la stipulazione di un primo contratto a termine della durata non superiore a 12 mesi senza la indicazione delle motivazioni; tuttavia tale contratto non è prorogabile.

Gli altri contratti “motivati” invece, possono essere prorogati per una sola volta e complessivamente, però, non possono superare, anche per effetto di rinnovate stipulazioni, la durata complessiva di 36 mesi, pena la loro conversione in contratti a tempo indeterminato.

In tema di rinnovi la riforma è particolarmente rigida, poiché il legislatore ritiene che il rinnovo del contratto a termine dimostri una patologia del rapporto lavorativo da contrastare mediante l’introduzione di limiti oggettivi; è per questo che tra la fine di un contratto e la stipula di uno nuovo dovranno passare 60 giorni (90 se la durata iniziale superava i sei mesi).

Tale “irrigidimento” tuttavia, sul piano concreto ed in un momento di forte decrescita economica ed occupazionale, rischia di sacrificare sull’altare del rigore concettuale, alcune potenzialità occupazionali che correntemente si esplicano in una sequela di rinnovi contrattuali che garantiscono, però, una stabilità lavorativa almeno nell’arco temporale dei 36 mesi (che di questi tempi non è poco).

La misura infatti, rischia di produrre come effetto una turnazione continua del personale, in quanto il datore di lavoro che dovrà aspettare 60 o 90 giorni per richiamare una persona sarà incentivato, nel caso in cui avesse bisogno nel correlativo periodo di personale a termine, a chiamare nuovi lavoratori a rimpiazzare quelli precedenti; in questo modo, si potrebbe creare il paradosso che il ricambio costante di personale, finisca per danneggiare proprio i lavoratori a termine che si vorrebbero tutelare.

È previsto però, che il citato intervallo temporale potrà essere ridotto a 20 giorni (30 se la durata iniziale del contratto superava i 6 mesi) se ciò sarà previsto dai contratti collettivi per le ipotesi di specifiche situazioni produttive.

Novità sono state introdotte in tema di contestazione della validità del contratto a termine; infatti se il contratto dovesse essere dichiarato illegittimo dal giudice, è prevista una doppia sanzione: la “conversione” a tempo indeterminato del contratto a termine; il riconoscimento al lavoratore di un’indennità omnicomprensiva (di retribuzione e contributi) sostitutiva del risarcimento di importo variabile compreso tra le 2,5 e le 12 mensilità.

Decisamente penalizzante per il datore di lavoro è l’incremento del costo contributivo, destinato a finanziare la nuova indennità di disoccupazione (Aspi), con l’applicazione di un’aliquota contributiva aggiuntiva pari all’1,4%; detto contributo, però, sarà restituito in parte (fino a sei mensilità di contributo già pagato), in caso di trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro.


 

Secondo articolo

(progettando il lavoro)

In merito alle disposizioni previste sul regime delle collaborazioni a progetto, la dichiarazione che il ministro Elsa Fornero ha reso all’atto della presentazione della proposta di riforma del mercato del lavoro hanno segnato un inequivocabile intento; il Ministro ha dichiaro che gli interventi «vanno nella direzione di una razionalizzazione dell’istituto, al fine di evitarne utilizzi impropri in sostituzione di contratti di lavoro subordinato; tale obiettivo è perseguito prevedendo disincentivi tanto normativi quanto contributivi».

In tale solco, di seguito le principali novità del testo legislativo approvato dal Parlamento.

Quanto all’oggetto del contratto, il rapporto di collaborazione non può più essere riferito a un programma di lavoro o a una fase, ma è invece necessario che il contratto identifichi un “progetto specifico”: funzionalmente indirizzato a un determinato risultato finale che deve essere indicato nel contratto individuale stipulato fra le parti; il progetto non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente; non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

La riforma ha legalizzato una serie di orientamenti giurisprudenziali che sul tema si sono consolidati a partire dal 2003 – anno di entrata in vigore della legge Biagi – e tra questi sono stati legalizzati altri due principi: l’attività lavorativa non deve essere resa con modalità analoghe a quelle svolte dai dipendenti del committente, poiché in difetto scatta la presunzione (relativa) di subordinazione; la mancanza nel contratto di uno specifico progetto determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Quanto al compenso del collaboratore, la riforma invece sovverte un orientamento giurisprudenziale consolidato nel passato e cioè che il principio della “retribuzione sufficiente”, di cui all’articolo 36 della Costituzione, riguarda esclusivamente il lavoro subordinato e non può essere richiamato per prestazioni lavorative autonome; infatti la riforma propone un paragone, di per sé improprio sul piano della logica sistemica, del valore economico di una prestazione svolta in regime di lavoro autonomo con quella prestata in regime di subordinazione.

Il compenso da corrispondere al collaboratore per la prestazione resa deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito e deve tener conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione del rapporto «e in ogni caso sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati».

Come è noto a favore dei collaboratori a progetto, anche se di regola diverse da quelle spettanti ai dipendenti, sono state previste dalla disciplina precedente delle tutele: maternità, malattia, infortunio; dette indennità sono poste a carico dell’Inps, anche se di regola condizionate a requisiti di contribuzione minima.

Nell’intento di disincentivare il ricorso a tale forma contrattuale, la riforma prevede oggi anche un incremento dell’aliquota contributiva pensionistica per gli iscritti alla gestione separata Inps e della corrispondente aliquota per il computo delle prestazioni pensionistiche.

Nell’incremento progressivo, nell’anno 2018, le aliquote arriveranno al 33% (contro il 27% attuale) e al 24% (ora è del 18%),rispettivamente, per i lavoratori non iscritti ad altra forma pensionistica obbligatoria e per i titolare di un trattamento pensionistico

È stato infine previsto che «Le parti possono recedere prima della scadenza del termine per giusta causa. Il committente può altresì recedere prima della scadenza del termine qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto. Il collaboratore può recedere prima della scadenza del termine, dandone preavviso, nel caso in cui tale facoltà sia prevista nel contratto individuale di lavoro».


 

Terzo articolo

(La riforma dell’articolo diciotto)

Sulla materia dei licenziamenti si è esercitato in questi mesi un dibattito aspro (anche se molto spesso non appropriato rispetto agli effetti tecnici delle proposte di riforma) incentrato quasi esclusivamente sulla questione della reintegrazione del lavoratore licenziato; ciò ha spinto il legislatore a trovare un punto di equilibrio il cui risultato, però, è consistito nell’introduzione di un complicato sistema sanzionatorio che ha implementato il potere discrezionale del Giudice (anche se, va detto, i criteri in base ai quali i giudici decideranno se la validità o meno di un licenziamento continueranno ad essere i medesimi elaborati in oltre quarant’anni di giurisprudenza).

L’esigenza che sta alla base della riforma, il cui fondamento non può essere sottaciuto, è quella della flessibilità del lavoro anche in uscita, che nasce dalla globalizzazione del mercato dei capitali e degli investimenti produttivi, così dalle politiche di armonizzazione legislativa dell’Unione Europea nella materia delle tutele del lavoratore, nella quale prevalgono modelli indennitari per i casi di licenziamento illegittimo.

Nella riforma vi è di certo una riduzione delle ipotesi di reintegrazione, a fronte della quale si auspica un orizzonte (tutto da testare) nel quale le imprese dovrebbero essere indotte a non ridurre i posti di lavoro a fronte del più agevole ricambio della mano d’opera e miglioramento della produttività del lavoro, con conseguente incremento (auspicabile) dei trattamenti salariali in favore dei lavoratori impiegati.

Di seguito una sintetica disamina delle principali novità relativa ai rapporti in regime di tutela reale (datori di lavoro con più di 15 dipendenti), visto che per le azienda con una forza lavoro sino a 15 dipendenti (cd. tutela obbligatoria) continuano ad applicarsi sostanzialmente (fatta eccezione che per i licenziamenti discriminatori) le vecchie norme.

Dall’unica sanzione prevista dal vecchio articolo 18, quella della reintegrazione, si passa a quattro regimi sanzionatori:

  1. la reintegrazione con risarcimento integrale, pari cioè a tutte le mensilità non percepite dal momento del licenziamento alla reintegrazione, con il minimo di cinque mensilità e l’integrale versamento dei contributi previdenziali e assistenziali deducendo, però, quanto percepito dal lavoratore in altre attività lavorative nel frattempo svolte. Resta ferma,per il solo lavoratore, la facoltà di rinunciare alla reintegra e conseguire un’indennità paria 15 mensilità;
  2. la reintegrazione con risarcimento limitato nel massimo di 12 mensilità, deducendo però, non solo le retribuzioni percepite dal lavoratore in altre attività lavorative nel frattempo svolte, ma anche quelle che avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione e con il versamento dei contributi al licenziamento alla reintegrazione. Resta ferma, per il solo lavoratore, la facoltà di rinunciare alla reintegra e conseguire un’indennità paria 15 mensilità;
  3. l’indennità risarcitoria, in misura che il giudice determina tra 12 e 24 mensilità tenuto conto dell’anzianità del dipendente, del numero di dipendenti del datore di lavoro, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti;
  4.  l’indennità risarcitoria omnicomprensiva in misura ridotta da 6 a 12 mensilità.

Il licenziamento che da sempre luogo alla reintegra, è quello intimato: in violazione articolo 3, legge 108/1990; in costanza di matrimonio; in violazione delle norme del Testo Unico maternità e paternità; nullo per espressa previsione legge; per motivo illecito determinante ed il licenziamento orale.