Veglia di Pentecoste, il «linguaggio dell’amore»

Dal linguaggio confuso di Babele ai “fiumi d’acqua viva” che generano un incontro nuovo: la liturgia della parola della celebrazione vigiliare di Pentecoste «ci ha condotto per mano» per «indicarci che dobbiamo andare a cercare quel linguaggio unico che abbiamo perduto». Quell’unità – ha detto don Fabrizio Borrellola sera del sabato di Pentecoste a S. Barbara in Agro – che nella confusione delle lingue di Babele gli uomini avevano perduto. Alla veglia dello Spirito Santo sono convenuti a Chiesa Nuova fedeli di diversa provenienza. Proposta inizialmente dalla locale comunità parrocchiale della Piana, è stata “diocesanizzata” come momento di preghiera comune, recependo l’invito della Chiesa italiana a dedicare tale appuntamento ai cristiani che soffrono persecuzioni e difficoltà in varie parti del mondo. Una veglia, ha detto don Borrello che l’ha presieduta a nome del vescovo Lucarelli, vissuta «in comunione con papa Francesco, che molte volte, anche di recente, è intervenuto in ordine alla tragedia di tanti cristiani e di tante persone i cui diritti fondamentali alla vita e alla libertà religiosa vengono sistematicamente violati»; una situazione che «ci interroga profondamente e ci spinge ad unirci, questa sera, in un grande gesto di preghiera a Dio e di vicinanza con questi nostri fratelli e sorelle », inchinandosi «davanti al martirio di persone innocenti», rompendo «il muro dell’indifferenza e del cinismo»: così l’esortazione che, secondo il testo proposto dalla Cei, il celebrante ha rivolto dopo il saluto e l’invocazione iniziale, prima del rito di aspersione che ha fatto da preludio alla carrellata dei brani della Scrittura. Prima che la celebrazione proseguisse nella memoria della Confermazione – aperta dall’accensione dei lumini al cero pasquale e dal canto del Veni Creator – e poi sfociasse nella liturgia eucaristica, don Fabrizio (che concelebrava con padre Alfredo, mentre altri preti e frati erano presenti nell’assemblea assieme a suore, postulanti, terziari francescani, laici di Ac e vari altri fedeli unitisi ai parrocchiani del luogo) nell’omelia ha invitato a cogliere nelle letture proclamate l’insegnamento di quella ricerca di unità che deve partire dall’esperienza quotidiana per saper abbracciare il mondo intero. Il percorso partito dalla disgregazione e mancanza di condivisione della torre di Babele giunge a Gesù «che dice di venire a Lui, di andare da lui, lui che si propone come il linguaggio comune, il linguaggio in cui tutti tutti possiamo ritrovarci, il linguaggio che tutti possiamo parlare perché è un linguaggio comprensibile e condivisibile da tutti gli uomini e da tutte le culture, in tutte le realtà: perché è il linguaggio dell’amore, il linguaggio di quell’amore che è il filo conduttore vero di tutta la creazione, che dovrebbe essere il filo conduttore della storia, quel filo rosso che sta sempre alla base della vita degli uomini ». Ecco il senso della veglia di Pentecoste che il sacerdote ha voluto mettere in evidenza: il riproporre «a noi stessi quell’unico linguaggio che è Gesù Cristo». Solo «quando noi avremo riconosciuto in Gesù l’unico vero linguaggio, il capovolgimento della torre di Babele, perché saremo tornati a quell’unità che Gesù ha ricostruito con la sua esistenza, con la sua parola, e continua a proporre al mondo», solo allora «l’azione dello Spirito sarà efficace dentro di noi». Perché l’apertura ai doni dello Spirito, invocato fortemente nella veglia con canti e segni, vuol dire «essere aperti a questo unico linguaggio che Gesù ha parlato e continua a parlare nella storia, e che affida alla Chiesa perché lo faccia conoscere al mondo intero».

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