Uomo di Dio. L’itinerario di fede

Giselda Adornato da decenni studia la figura del Papa bresciano. Ecco la sua testimonianza.

Collaboratrice dell’Istituto Paolo VI di Concesio e consultore storico della Congregazione per le cause dei santi per la stesura della Positio super vita et virtutibus del Servo di Dio Giovanni Battista Montini, Giselda Adornato, autrice di numerosi volumi, da decenni studia in modo esclusivo la figura del Papa Bresciano. Sabato 13 settembre, durante l’assemblea diocesana dell’Azione cattolica, l’autrice della biografia di Paolo VI, oltre che curatrice della raccolta antologica degli scritti di Montini, entrambi editi dalle edizioni San Paolo, ha tenuto una relazione sul magistero di Pontefice bresciano, focalizzando l’attenzione sull’Evangelii Nuntiandi, l’esortazione apostolica di Montini promulgata circa 40 anni addietro, la studiosa ha così esordito.

In questo documento
Paolo VI delinea il suo personale itinerario di fede. In Papa Montini c’era sempre un affinamento personale della fede, che andava di pari passo con la consegna della stessa al mondo. Papa del dialogo, del rapporto con il mondo, già durante gli anni Venti, quando Montini era assistente della Fuci, il futuro pontefice ha affrontato il tema del rapporto fra la Chiesa e l’esterno. Un argomento poco declinato allora dai cattolici, che all’epoca avevano una posizione di scontro, di differenziazione che andrà acuendosi durante il fascismo. Montini si pone in contrapposizione con l’intransigenza dominante verso la modernità, chiamando i giovani della Fuci al dialogo, al componimento della modernità con la tradizione, la tradizione del cattolicesimo, della Chiesa. Non nova sed nove, infatti, sono le parole più volte pronunciate da Montini durante il periodo milanese. Gli orientamenti dati ai giovani della Fuci: “Non dobbiamo avere atteggiamenti rinunciatari”. In Azione fucina Montini scrive: “Oggi l’uomo è idolatra, è servo, vittima delle conquiste moderne, invece noi dobbiamo amare il mondo e conquistarlo”. E per raggiungere tale obiettivo, nel 1931, ad alcuni giovani “fucini” Montini propone una regola di vita. Spiritus veritatis prende corpo: “Non ci deve bastare essere dei fedeli, noi dobbiamo essere degli apostoli. Dobbiamo, attraverso il nostro studio, favorire la diffusione della verità negli altri”. È chiaro che durante il Fascismo la cultura, per questi giovani, diventava un sostituto della politica”.

La contrapposizione al regime. L’antifascismo per Montini era una vera e propria missione spirituale che, attraverso la cultura, doveva arrivare alla verità. I giovani “fucini” che, in virtù degli accordi e dello statuto dell’Azione cattolica, non potevano interessarsi di politica, dovevano però trovare tramite la cultura un modo per trovare un modo per continuare a essere persone, per pensare e essere cristiani. In ugual modo Montini doveva pensare anche alle anime di chi aveva abbracciato le idealità del fascismo. I giovani dovevano essere allenati ad affrontare un domani di libertà e di diffusione del cattolicesimo, attraverso quella che veniva chiamata la “carità intellettuale”: la diffusione grazie alla cultura del bene, della verità. Tre le condizioni che Montini pose per la trasmissione della fede: lo studio della parola di Dio, il Depositum fidei, per utilizzare le parole di Monini, la preghiera e la carità. Giunto a Milano, il futuro pontefice, ricordando la consegna di Pio XII, disse: “Il Papa mi ha raccomandato di conservare il deposito della fede”. Un deposito vivo, vivace, nuovo, ma sempre fedele. Da qui, da questo deposito di fede personale, il messaggio – secondo Montini – deve irradiarsi nel mondo, entrando in contatto con i destinatari, conoscendo le persone alle quali veniva dato l’annuncio, il pensiero passava quindi agli interlocutori, tutti, nessuno escluso. Montini non poneva delle preclusioni. In merito Giselda Adornato ricorda i famosi cerchi dell’Enciclica programmatica, Ecclesiam Suam. Nella diocesi lombarda, quando era già stata ufficializzata la sua nomina, Montini vuole ricevere tutti gli esponenti del mondo ecclesiale, del mondo culturale, del mondo politico, per comprendere al meglio l’ambiente. Questo è sempre stato il suo stile, voleva conoscere le persone con cui avrebbe dialogato, alle quali avrebbe dovuto portare l’annuncio. In merito alla preghiera, al secondo punto delle condizioni di Paolo VI, i testimoni della Causa di beatificazione ne hanno parlato in termini bellissimi, raccontano che quando pregava era compenetrato del senso di Dio, soprattutto nell’ultimo periodo della sua vita era arrivato addirittura a una forma mistica di preghiera, senza pensare alla mistica come a qualcosa di lontano, ma proprio come compenetrazione del mistero di Dio. I testimoni raccontano che quando qualcuno doveva chiamare il Santo Padre, al termine della preghiera, era difficile scuoterlo dallo stato in cui era immerso.

Preghiera e liturgia.
Paolo VI ha scritto moltissime preghiere, dei capolavori, eppure, quando doveva spiegare come lui pregava, diceva che si sentiva balbettante come un bambino, ancora da Papa. Questo per quanto riguarda la preghiera personale. La preghiera ecclesiale, liturgica, è stato uno dei punti fermi di Paolo VI.

Montini e la carità.
Paolo VI era una persona molto riservata, oggi il mondo conosce i suoi gesti caritativi grazie a chi gli è stato vicino. Per lui la carità era un elemento costitutivo del cristiano. “Il mio primato non dev’essere nella potestà – affermava il Santo Padre – ma nella carità”. Ormai sulla soglia degli 80 anni, Montini scrive: “Bisogna essere dotati di un amore folle, teso fino all’impossibile per poter compiere qualche cosa di possibile. Sono stanco e vecchio, ma la carità non ha fine”. Noti più di altri alcuni suoi atti. Talvolta, però, Paolo VI fu protagonista di alcuni gesti plateali, ma pedagogici, per insegnare che la Chiesa deve essere verità, ma la maggior parte delle attenzioni verso il prossimo rimanevano nascosti.
Un evento su tutti: “Quando venerdì di quaresima, vestito solo da prete, l’allora arcivescovo di Milano andava a trovare i poveri. I gesti personali dovevano essere coperti, quelli ecclesiali dovevano essere mostrati per essere di esempio alla Chiesa. Divenuto Papa scrisse: “Dobbiamo protenderci verso la Chiesa della carità, altrimenti non potremo rinnovare in profondità il mondo”. Un indirizzo, un insegnamento, che è stato ripreso in maniera preponderante dall’attuale Pontefice. Paolo VI e il dialogo. Termine troppo inflazionato, il dialogo, quando si parla di Papa Montini, deve essere inteso come dialogo della salvezza, il colloquium salutis citato nell’Ecclesiam Suam. Un dialogo con delle caratteristiche spirituali: la fede e la carità. Il dialogo è una declinazione della virtù della carità.
Due, secondo Paolo VI, le modalità di dialogare: dal mondo alla Chiesa e dalla Chiesa al mondo. Non bisogna fare confusione. Se vengono invertiti i due modi il dialogo non è più inteso come missione. Un concetto chiave dell’Evangelii Nuntiandi è l’evangelizzazione, a fondo, di tutte le culture. Dove il termine cultura deve essere letto attraverso le lenti della costituzione pastorale Gaudium et spes. Il dialogo (salvifico) della Chiesa con tutte le culture è indispensabile all’evangelizzazione.

I viaggi apostolici iniziati da Papa Montini.
Sono state due le strade intraprese da Paolo VI per l’evangelizzazione, attraverso la pastorale ordinaria (liturgia, sacramenti, udienze del mercoledì, etc.) e quella straordinaria.
Quest’ultima portata avanti attraverso i viaggi apostolici, dei ponti per accostare i diversi pluralismi: “Diventare pescatore di uomini” dirà Paolo VI. Durante un’intervista al Corriere della Sera, prima di recarsi all’Onu, Montini pronunciò la seguente frase: “Ci sono milioni di persone che non hanno più la fede religiosa, da qui la necessità per la Chiesa di aprirsi”. Significative, in tal senso, le parole dell’allora arcivescovo di Monaco Joseph Ratzinger, durante l’omelia In morte di Paolo VI: “Noi di Papa Montini ricordiamo non un uomo con i pugni chiusi, ma un uomo con le mani aperte”. Anche sotto questo profilo, secondo la relatrice, devono essere osservati i viaggi apostolici: nel ’68, prima di andare a Bogotà, il Papa disse che i viaggi andavano letti nella circolarità della carità.

Il Concilio.
Nell’evangelizzazione il Papa riteneva che dovevano esprimersi le virtù del cristiano. Tra il ’67 e il ’68 Paolo VI pregò affinché la fede dei cristiani fosse piena, libera, certa, forte, gioiosa, operosa e umile. Aggettivi che in maniera più strutturata il Papa inserirà nel Credo del popolo di Dio, nel ’68, alla fine dell’anno della fede. In Montini l’umiltà è stata una virtù fondamentale. Non per niente è stato definito il Papa dell’umiltà: Ricordiamo tutti – ha sottolineato la Adornato – quando Montini baciò i piedi del metropolita di Calcedonia Melitone, un gesto pedagogico. In Paolo VI convivevano virtù solo apparentemente contraddittorie.
All’umiltà si affiancava la fortezza. Quella di Montini è un’umiltà che prelude alla fortezza. Una virtù che Montini coltivò moltissimo. Cosa significava per Paolo VI la fortezza? Voleva dire avere una certa audacia nel proporre idee nuove, questo lo fece per tutta la sua vita, sia con i fucini, che a Milano, come da Papa. Questa audacia nel proporre idee nuove significava osare, senza la paura delle conseguenze negative.
Quale Papa è stato più attaccato di Papa Montini? Attacchi che ebbero delle conseguenze sul morale del Santo Padre, ma non intaccarono la sua fede e la sua speranza nelle capacità di discernimento del prossimo: “Soffro – scriveva Paolo VI – sono rammaricato, ma non perdo la fiducia. Non perdo la fiducia nell’uomo, nei valori dell’uomo”. Questo atteggiamento aveva dei risvolti anche nel suo vivere la Croce, non in maniera pessimistica, ripiegata, ma con lo sguardo sempre rivolto alla speranza, verso un obiettivo di salvezza. Di fronte alle critiche il Papa non si fa abbattere. Nei suoi appunti privati scrive: “Non lasciarsi abbattere da nulla di quanto può essere motivo di dispiacere o di dolore, non temere l’impopolarità. La giustizia e la verità valgono più di te stesso. Quando ci proponiamo di servire Dio e solo Dio qualunque esito addivenga non può essere infelice”.
Significativa del suo stato d’animo di quel periodo, una frase vergata al termine del Concilio: “Era stanchissimo – ricorda Giselda Adornato -, era morto da poco padre Bevilacqua, il suo grande confidente e amico”. In questo frangente il Santo Padre scrisse: “Forse il Signore mi ha chiamato a questo servizio non già perché io abbia qualche attitudine, o perché io governi e salvi la Chiesa dalle sue presenti difficoltà, ma perché io soffra per la Chiesa, e sia chiaro che Egli, e non altri, la guida e la salva”.

Romano Guatta Caldini