Uomini senza volto e amori infelici / Intervista a Isabella Borghese

Gli amori infelici non finiscono mai”, secondo romanzo della scrittrice Isabella Borghese, è un libro che parla della Prosopagnosia, una rara patologia che consiste nell’incapacità di riconoscere i volti delle persone e gli oggetti anche più familiari. Nel testo l’Uomo senza volto è appunto il personaggio colpito da questa malattia dopo un incidente. Alla sua seconda vita si intreccia quella di Eszter, una giovane precaria dell’editoria che racconta la sua vita da pendolare. Abbiamo intervistato l’autrice, che sarà a Rieti per presentare il suo libro il 15 gennaio alle 18 presso la libreria Rieti.

La Roma che racconti è piena di problemi, basta vedere l’odissea quotidiana del bus 60. Che cosa dire delle questioni aperte della capitale che la cronaca già non descriva nei minimi particolari?

La Roma che racconto io, racchiusa in questo non luogo che è l’autobus 60, è la capitale dei disoccupati in cerca di lavoro, delle nonne che strillano ai nipoti, di chi cerca con prepotenza di mantenere il suo spazio, di chi soffre in silenzio, di chi strilla ma senza essere ascoltato, di chi non sa stare sul bus perché forse, non sa neanche stare al mondo;  la Roma di chi è indifferente all’altro, di chi lotta per una mobilità migliore, che sia un autista, che sia un passeggero. L’autobus è un contenitore, diventa un pretesto per raccontare non solo chi siamo, ma soprattutto chi siamo con gli altri.

Il 60, quest’autobus leggendario dai personaggi incredibili per quanto verosimili. Come hai creato questi co-protagonisti?

Io viaggio molto per Roma, ho cercato di raccontare chi siamo quando usciamo da casa e a fatica saliamo sull’autobus come fosse un mezzo in cui siamo soli, lamentandoci di tutte le mancanze, come se accanto a noi non ci fossero persone. Li ho creati tutti così, osservando il nostro modo di vivere i mezzi pubblici, a volte eccedendo, facendo le nostre stesse caricature, ma ce lo meritiamo.

La prosopagnosia è una condizione di certo rara, ma coglie all’estremo un aspetto fondamentale dell’umanità, la sensazione di non conoscere se stessi e gli altri, di non riconoscere il mondo come qualcosa di nostro. Possiamo dire che la malattia è una tremenda metafora di qualcosa che ci accomuna molto profondamente?

Assolutamente. Io dico sempre che attualmente, purtroppo, pare che le persone debbano essere sempre catalogate, e se non lo si riesce a fare si guarda l’altro quasi con diffidenza, come se non fosse una persona; è inusuale e raro riconoscersi nell’altro, fatto che crea delle grandi barriere e non avvicina a chi ci è accanto.

Il tuo modo di scrivere è caratterizzato dai periodi brevi, che combinati con la prima persona danno vita ad una particolare prospettiva delle coscienze dei due protagonisti. Perché la scelta della prima persona?

Perché soprattutto nel caso dell’Uomo senza volto ho dovuto calarmi nel personaggio totalmente e fare in modo che con la sua vita coinvolgesse il lettore. Mi era parso il modo migliore, l’utilizzo della prima persona. Ed Eszter a quel punto doveva per forza accompagnarlo con la prima persona.

Il mondo dell’Uomo senza volto è come un enorme Madeline. Proust è stata una delle tue fonti d’ispirazione?

Non poteva essere diverso il mondo dell’uomo senza volto. È vero, può ricordare Proust, ma a ispirarmi è stato Oliver Sacks. Le storie che ci ha raccontato nei suoi libri. Il mio Uomo senza Volto avrebbe potuto essere diverso solo se avessi scelto per lui una differente reazione, e quindi un personaggio che divenuto prosopagnosico si rinchiudeva in casa senza reagire e vivere, scoprendo un nuovo modo di stare al mondo. Ma non sarebbe stato il mio romanzo. Per me è importante raccontare il riscatto dell’uomo, con la scrittura, la reazione dell’uomo a uno stato che potrebbe più facilmente immobilizzarlo, anche metaforicamente parlando.

Nel libro ci sono alcune definizioni fulminee come questa legata al titolo “Tutti gli  amori per essere veri non possono privarsi dell’infelicità.” Oppure una molto bella della scrittura: “una possibilità in più di amare.” Come si fa a cogliere aspetti al tempo stesso tralasciati eppure evidenti delle cose, anche le più importanti? Che sguardo serve?

Io sono una persona che osserva molto tutto il possibile, che ama guardare le persone, conoscerle, capire cosa le spinge a certe scelte, a determinati comportamenti, soprattutto quando sono differenti dai miei. Amo più ascoltare che parlare. E questo osservare, questo ascoltare, mi rendo conto di metterlo poi a servizio della mia scrittura. In fondo la mia è un’attenzione verso l’essere umano. Io la chiamo cura.

Nel finale, che non sveliamo naturalmente, c’è un momento congelato, un istante infinito evocato da poche parole e che personalmente mi ha ricordato la stessa sensazione che mi dà leggere una poesia breve, ma coinvolgente. È un effetto voluto, hai fermato il tempo? È in questo senso che gli amori infelici non finiscono mai?

Ti racconto qualcosa che sinora ho svelato solo a una persona. I miei libri sono posti pieni di segreti, il luogo migliore per custodirli: all’inizio della stesura del romanzo, ero ancora in promozione con Dalla sua parte, il mio esordio. Mio padre si stampò tutta la rassegna stampa, acquistava copie in una libreria del quartiere dove sono nata, cresciuta, e le rivendeva. Un gesto molto bizzarro, il suo, che non mi ha mai infastidita, invece mi faceva sorridere. Mi sono incontrata con il suo essere un padre orgoglioso, e non me ne è importato molto se il suo fosse giudicato da qualcuno un fare strambo. Non faceva del male a nessuno e in più ha trovato il modo di esprimere i suoi sentimenti verso di me e il mio lavoro. Non mi sarei mai permessa di imporgli di fermarsi. È stato il suo modo di dimostrarmi la sua fierezza. Quando dovevo pensare a come far vivere l’Uomo senza Volto ho pensato di assegnargli questo gesto d’amore immenso per la sua Gisella. Insomma, lo so che in molti si pietrificano sul finale, ma io ho scelto di fermare il tempo esattamente nel momento dopo il riconoscersi. Questo conta. Tutto quello che accade poi non è di rilievo per me. È troppo importante il momento del riconoscimento per perdersi in altro. Poi io sono un po’ dappertutto nei protagonisti del romanzo, non riesco mai a essere dentro uno solo, quindi il se è vero che il tempo congela è anche vero che un certo tipo di amore non finisce mai. Al di là del tempo, insomma.

Hai scritto e mi ha molto colpito: “In quel posto magico, che è la pagina bianca da riempire, non mi sono mai sentita sola, né abbandonata”. Vorrei chiudere l’intervista con un tuo pensiero su questa frase.

Per me la pagina bianca è attrazione, difesa, compagnia, gioco, segreto. È cura e attenzione verso quello che si vuole capire, di cui non si vuole parlare sempre, ma si vuole raccontare, rielaborando, per condividere. E’ come un’amica del cuore, disponibile sempre, per ridere e per piangere, nel senso di sfogarsi. Ricordo che da piccola le storie che leggevo mi commuovevano, o mi facevano ridere con tale forza, che subito riuscii a capire la potenza della parola, di una storia narrata. Ed è rinuncia, perché scrivere è un impegno a cui non ci si può dedicare a tempo perso.