Uno studio sull’apprendimento della perseveranza da parte dei…

I bambini piccoli che osservano un adulto impegnarsi in un compito e raggiungere l’obiettivo hanno più probabilità di mostrare perseveranza.

La perseveranza è uno “strumento” a disposizione della nostra personalità; se orientata al bene, diventa una virtù. Dunque, è senz’altro utile che i bambini, crescendo, sviluppino questa capacità per potersene servire al momento più opportuno. Ma qual è il meccanismo di questo specifico apprendimento? Ci hanno pensato i ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) a svelarne il segreto. Attraverso una loro ricerca (pubblicata di recente su “Science”), infatti, hanno scoperto che i bambini piccoli, osservando un adulto impegnarsi in un compito e poi raggiungere l’obiettivo, hanno sicuramente più probabilità di mostrare perseveranza, anche dovendo affrontare un compito diverso.

Già precedenti studi avevano evidenziato come i bambini possano imitare azioni e apprendere concetti, anche sulla base di pochi esempi degli adulti. La nuova ricerca è andata oltre, dimostrando che i bambini possono anche estrapolare dei valori dai comportamenti degli adulti, ad esempio apprendendo quando vale la pena di continuare a provare a raggiungere un obiettivo. “I meccanismi inferenziali – afferma Laura Schulz, cognitivista del MIT e autore senior dello studio – che i bambini usano per imparare i concetti o le cose del mondo, possono anche usarli per imparare a cambiare il modo in cui agiscono nel mondo. Non ci rendiamo conto di quanto i bambini ci osservino e di quante inferenze traggano dal nostro comportamento”.

Per giungere a questi risultati, il team di studiosi, guidati da Julia Leonard, dottoranda al MIT, ha coinvolto 262 bambini (tra i 13 e i 18 mesi di età), mentre visitavano il Boston Children’s Museum. Ai neonati sono stati presentati tre scenari diversi. Nel primo, Leonard ha interpretato il ruolo di un adulto perseverante, alle prese con due diversi giocattoli: un barattolo con una rana di gomma all’interno e un moschettone attaccato a un portachiavi a forma di mucca. Assicurando il contatto visivo con il bambino e sottolineando ciò che faceva con frasi del tipo: “Hmmm, e adesso come tiro fuori il mio giocattolo da qui?”, ha quindi mostrato di avere difficoltà con ciascuno dei giocattoli per circa 30 secondi, prima di risolvere il problema, ovvero aprire il contenitore e svincolare il portachiavi dal moschettone.

Quindi Leonard ha mostrato a ciascun bambino un altro giocattolo, ottenuto artigianalmente modificando il meccanismo interno di un biglietto di auguri musicale; poi, lo ha attivato senza farsi vedere (spingendo un pulsante nascosto su un lato), per mostrare al bambino che funzionava. Ma il giocattolo era progettato in modo tale da risultare molto difficile per i piccoli capire come attivarlo. Inoltre, sulla parte superiore dell’oggetto vi era un grande pulsante finto, che agli occhi di un bambino probabilmente doveva sembrare il modo più immediato per attivare il giocattolo. Dunque, dopo aver lasciato suonare per cinque secondi la canzoncina, la ricercatrice consegnava il giocattolo al bambino e abbandonava la stanza.

Nel secondo scenario, invece, la ricercatrice mostrava di fare uno sforzo minimo nell’aprire il contenitore o nello staccare il portachiavi. Entro 30 secondi raggiungeva il suo obiettivo tre volte con ogni oggetto. Poi riprendeva il giocattolo musicale, lo consegnava ai piccoli e usciva dalla stanza.

Nel terzo scenario, la Leonard non faceva nulla e consegnava il giocattolo direttamente al bambino. A questo punto i piccoli, che avevano visto Leonard impegnata nello sforzo per 30 secondi prima di raggiungere l’obiettivo di aprire il contenitore e staccare il moschettone dal portachiavi, premevano il pulsante del giocattolo per un tempo significativamente maggiore, dimostrando così perseveranza rispetto agli altri bimbi che l’avevano vista raggiungere lo scopo rapidamente o non l’avevano vista fare alcunché. “Sappiamo già – spiega Paul Harris, psicologo dello sviluppo della Harvard University – che i bambini possono guardare qualcuno e capire che cosa sta cercando di fare. Ma questo studio va ben oltre, poiché dimostra che i bambini possono guardare qualcuno, valutare la perseveranza con cui cerca di fare qualcosa e poi emulare lo stesso comportamento quando essi stessi si trovano ad affrontare un compito impegnativo”.
Finora, la maggior parte delle ricerche sull’atteggiamento mentale si era concentrata su bambini in età scolare. “Il fatto che i bambini piccoli possano cogliere questi messaggi – sottolinea Lucas Butler, psicologo dello sviluppo dell’Università del Maryland a College Park – per poi interiorizzarli solo guardando qualcuno, ci dice che se vogliamo crescere bambini perseveranti, che hanno quella che si può chiamare ‘grinta’, dovremmo iniziare fin dalla tenera età e dovremmo riflettere su come affrontiamo le sfide”.

La ricerca del MIT prevedeva uno stadio successivo. Leonard, infatti, ha voluto provare se si ottenevano i medesimi risultati con una situazione più realistica. Così ha ripetuto l’esperimento, ma stavolta senza mantenere il contatto visivo con i bambini e senza fare commenti in un linguaggio per loro comprensibile (invece di dire: “Hmm, come posso riuscirci?” con un’intonazione coinvolgente per i bimbi, ha usato un tono normale). Come nei primi esperimenti, i neonati sembravano ancora imparare quanto lo sforzo fosse prezioso, ma non perseveravano nel compito di premere il pulsante tanto quanto facevano quando Leonard aveva dato segnali comprensibili ai bambini. “È curioso – spiega György Gergely, cognitivista dello sviluppo della Central European University di Budapest – che l’apprendimento non sia altrettanto solido quando i bimbi si limitano a osservare, invece di essere coinvolti in scambi interattivi. Ma per me, la questione più interessante era: puoi mostrare che vale la pena essere perseveranti? Questo studio suggerisce che in effetti è possibile”.