Uno Stato cinico e baro

Aumentano i consumi del gioco d’azzardo, e i guadagni per i concessionari, ma non si trovano rimedi per riparare ai danni collaterali prodotti da un sistema che si direbbe fuori controllo.

Da tempo sulla Tv e sugli altri media abbondano pubblicità che promuovono il gioco d’azzardo, anche se accompagnate dall’invito a “giocare il giusto” o “responsabilmente”. Un modo di comunicare che lascia perplessi e forse apre qualche problema. Abbiamo provato a chiarire il tema con l’aiuto del Dott. Luca Sabetta, laureato presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e frequentante il Dipartimento delle Dipendenze del Policlinico A. Gemelli di Roma.

Qual è l’attuale panorama del gioco d’azzardo?

Beh, partiamo con il dire che il gioco d’azzardo ha un giro di affari enorme. Praticamente è la terza industria italiana. Secondo i dati Eurispes del 2011 nel complesso muove circa 50 miliardi di euro. E stiamo parlando solo del gioco legale: c’è anche una attività illegale, più o meno clandestina, che si stima valga attorno ai 20 miliardi di euro. Sono numeri che da soli danno bene l’idea del fenomeno e la loro relativa stabilità denuncia chiaramente la dipendenza che creano i giochi d’azzardo.

Ma nel conto vengono considerati anche il Lotto e i suoi derivati?

Certo. Mi rendo conto che nel sentire comune certi giochi sono rivestiti da una patina di innocenza. Fanno indubbiamente parte del costume, ma vanno considerati giochi d’azzardo veri e propri.

Ma allora come si definiscono i giochi d’azzardo?

Volendo limitare il campo potremmo restringerlo a quei giochi in cui si scommette denaro o altri beni sul futuro esito di un evento. Altri aspetti sono l’irrilevanza del talento individuale del giocatore e la sproporzione tra la possibilità di vincere, che spesso è quasi inesistente, e quella di perdere.

D’accordo, ma la dipendenza? Le droghe “fisiche” agiscono sull’organismo. E nel gioco?

È la stessa cosa. Il giocatore cade nella dipendenza quando non riesce più a tenere sotto controllo il rischio. C’è un chiaro fattore psicologico e sociale, ma c’è anche una forte componente biologica. Al pari delle droghe normalmente intese, la dipendenza si realizza attraverso un meccanismo biochimico. Il gioco porta l’organismo a produrre sostanze come la dopamina, che danno una sensazione di benessere e gratificazione.

Sapendo questo, «si può giocare responsabilmente»?

No, non esiste la dose minima o massima consigliata, una soglia di sicurezza. Quando la pubblicità dice «gioca responsabilmente» propone un messaggio insensato. Minimizza un rischio che invece è molto grande. È un po’ come dire «buttati con un paracadute difettoso responsabilmente», rischia responsabilmente la tua vita. È assurdo, è una contraddizione. Si direbbe che lo Stato voglia tenere gli utili di una attività rischiosa senza accollarsi la responsabilità sociale che ne deriva.

E oggi la situazione è peggiorata a causa delle nuove tecnologie…

Sì, un tempo c’era l’attesa dell’ora della giocata. Con il gioco on-line non esistono più limiti di orario. In ogni momento si può avere una “dose”. È un po’ come se un drogato avesse la piantagione di marijuana in casa! E c’è da aggiungere che la tecnica alimenta queste dipendenze in molti modi: l’industria del gioco d’azzardo finanzia studi sul comportamento del giocatore di fronte alla macchina. Si costruisce scientificamente il coinvolgimento: i colori e i suoni creano una sorta di ipnosi per incollare le persone al gioco. Così finiscono per non rendersi più conto di quello che accade intorno, di quanto spendono e del tempo che passa. Lo confermano gli stessi giocatori.

Esiste qualche tratto distintivo del giocatore?

I più incalliti sono convinti che esista una sorta di “destino del giocatore”. Le prime volte che hanno giocato hanno vinto. Una volta gratificati sono allettati dalla voglia di riprovare. Convinti che il gioco sia controllabile, se non reagiscono in tempo scivolano in una spirale che porta inevitabilmente al baratro. Alcuni finiscono addirittura con il giocare per perdere. Sono casi in cui si apre un problema psichiatrico vero e proprio, una forma di disturbo ossessivo compulsivo.

E a livello sociale?

Beh, il gioco “è” un momento sociale. In strutture come le sale Bingo, i centri di scommesse sportive, o i circoli privati la cosa è esplicita: si va per socializzare. Ma dopo un po’ si nota che ci sono sempre le stesse persone. Parlano solo di scommesse, dell’attesa del “loro momento”, delle occasioni mancate di un soffio. La componente sociale c’è paradossalmente anche nel gioco on-line. Si è soli, è vero, davanti alla macchina. Ma si è immersi in una comunità virtuale di giocatori.

Ma la società determina anche la percezione del gioco…

Certo, da tempo è stata “sdoganata” l’idea che sia legittimo sperare di diventare ricchi da un giorno all’altro senza fatica. Ma a ben vedere spesso si tratta di motivare una esistenza svuotata con una eterna rivincita da prendersi. È uno dei meccanismi che fa scattare “il destino del perdente”. La perdita al gioco alimenta un’aggressività che in realtà non si possiede, nutre un sentimento di rivalsa, quasi eroico, nel quale la sconfitta è dovuta al destino avverso e non alla propria incapacità.

C’è un gruppo sociale più esposto alla dipendenza patologica dal gioco d’azzardo?

In linea di principio nessun ceto è escluso. Ma per certi versi sono le classi povere e il ceto medio basso ad essere più esposti. Hanno il giusto desiderio di emanciparsi, ma oggi “l’ascensore sociale” è quasi bloccato. In tanti cercano un rimedio alla frustrazione per un lavoro poco gratificante o poco redditizio, l’occasione per fare un salto di qualità, e alcuni cadono nelle maglie del gioco patologico. A questo va aggiunto che il gioco on-line ha spostato verso il basso l’accesso all’azzardo. Non c’è più bisogno di andare al casinò quando lo hai nel computer di casa. E così viene meno anche ogni limite di età.

Di fronte a tutto questo non c’è un aspetto criminoso della pubblicità?

Probabilmente sì. Ci sono meccanismi che fanno leva sulle debolezze delle persone. Nel nostro ordinamento esiste la circonvenzione di incapace. Non sarà del tutto pertinente ai problemi legati al gioco d’azzardo, ma qualche similitudine si può cogliere. Dopo tutto certe tecniche di comunicazione vanno ad agire laddove l’individuo è meno preparato a difendersi. Sono dei veri e propri colpi bassi sui quali occorrerebbe intervenire. Ma, chi dovrebbe proteggere il cittadino è anche il primo che guadagna dalla sua esposizione al rischio.

Questa trascuratezza dipende dal fatto che il bilancio tra costi e benefici, per lo Stato, rimane a saldo positivo?

Bisogna vedere come si leggono le cose. Certo, se si fa il bilancio economico, è un po’ come per le sigarette: gli incassi superano i costi per curare i malati di cancro. Ma quando si mettono sul piatto anche i costi sociali il discorso cambia. Si parla di sofferenze per le persone, di problemi per le famiglie, e di un sistema che volenti o nolenti, per quanto si possa regolamentare, offre il fianco ad un ampia varietà di degenerazioni. E non parlo solo del gioco illegale o clandestino. Sono innumerevoli infatti i drammi da indebitamento, i casi in cui si cade preda degli strozzini o della disperazione.

Ma allora come si contrasta il problema?

Non è semplice: le forze sono impari. Bisogna confrontarsi anche con tanti interessi, grandi e piccoli, perché oltre allo Stato ci guadagnano i gestori di macchine elettroniche, le sale gioco, le tabaccherie, i bar e così via. È difficile contrastare una intera cultura del gioco, specialmente se ha il convinto supporto dello Stato.

Cultura del gioco?

Sì, ma non stiamo parlando dell’interpretazione dei sogni, della Smorfia, cose che possono avere una dimensione culturale legata alla tradizione, magari da salvaguardare. Il fatto è che oggi in troppi sono costretti a vivere alla giornata, obbligati a cercare la propria riuscita nel quotidiano piuttosto che nella paziente costruzione di sé. Di fatto ci si sente in mano al destino, una divinità cieca e terribile. Un bel paradosso per una società che forse vorrebbe liberarsi di Dio. Comunque sia, se non si pone un rimedio ampio, sociale e culturale al problema, non rimane altro che la cura dei singoli dal punto di vista clinico.

Come si agisce?

Va interrotta la catena della dipendenza e curato il meccanismo ossessivo compulsivo. Diversamente è difficile uscirne da soli. Dal punto di vista terapeutico sono infatti molto utili i gruppi di giocatori anonimi, dai quali ogni partecipante esce cambiato incontro dopo incontro, racconto dopo racconto. È una esperienza che ricorda per certi versi il meccanismo della catena di montaggio: ognuno mette solo il proprio tassello, la propria esperienza con il gioco, ma il prodotto finale è una completa elaborazione del disagio.

E a Rieti, quale è l’incidenza del problema?

Su Rieti non abbiamo dati completi: stiamo cercando di mettere in moto il sistema, cercando di sensibilizzare tutti al problema, perché “guardandoci intorno” possiamo rilevare che il tema è presente e la situazione è anche grave. Sarebbe quindi opportuno iniziare a lavorarci sopra.