Una città sospesa tra cielo e terra: la Pietroburgo di Andrej Belji

 La splendida Pietroburgo, grande città sorta per volere dello Zar Pietro il Grande, è il centro di una grandissima produzione letteraria della Russia a partire da Puškin fino ad arrivare alla novellistica novecentesca. Sorta in una zona molto paludosa, Pietroburgo venne edificata dopo una vasta opera di bonifica che costò la vita a migliaia di servi della gleba; la consapevolezza di questo grande sacrificio collettivo che portò all’edificazione di una città continuamente colpita da inondazioni crearono, nella coscienza degli intellettuali russi, il mito di una città maledetta, una città avvolta dalle nebbie di un peccato ancestrale nella quale reale e immaginario si fondono in un unico delirante simbolo.

Uno dei più grandi romanzieri della Russia pre-rivoluzionaria, Andrej Belji, è l’autore di quello che viene ritenuto uno tra i più sorprendenti romanzi del novecento Europeo, ovvero Pietroburgo; accostato da molti critici ad opere della statura dell’Ulisse di James Joyce, questo romanzo è caratterizzato da una trama che si sgrana e si snoda sullo sfondo evanescente di questa splendida e misteriosa città: Nikolaj Apollonovic è uno studente che all’università aveva stretto legami con una organizzazione terroristica e che, una volta tornato a casa, viene contattato da un suo compagno della cellula terroristica che gli consegna una bomba con l’incarico di custodirla fino a nuovo ordine. Nel frattempo, il padre dell’ex studente, Apollon Apollonovic, Senatore e uomo di grande peso politico, vive la sua vita triste e solo dopo che sua moglie lo ha abbandonato per andarsene all’estero, luogo dal quale non invia notizie a nessuno. Il via all’azione viene dato da Lippačenko, un lituano dall’apparenza subdola che consegnerà a Nikolaj Apollonovic una lettera nella quale gli viene chiesto di compiere l’attentato terroristico contro una persona a lui molto cara, trascinando così tutti i personaggi in una spirale autodistruttiva nella quale persino lo spirito di Pietro il Grande, sotto la forma del leggendario Cavaliere di Bronzo, già cantato e trasformato in leggenda da Puškin, deciderà di scendere in campo per ristabilire un equilibrio precario all’interno del quale la felicità riesce a malapena ad essere presente.

La trama di questo romanzo è apparentemente semplice, i protagonisti sembrerebbero gli uomini, ma è in realtà la stessa città di Pietroburgo ad essere ritratta in primo piano. È la città che prende vita, che ha una sua voce, un suo manto fatto di verdi nebbie e denso fango, una città che ulula nel vento portando a coloro che la abitano le promesse di una rivoluzione lontana, ma ormai inevitabile. Questo sfondo storico è naturalmente la rivoluzione del 1905 che seguì alla sconfitta della Russia in Manchuria contro il Giappone ormai divenuto una temibile macchina da guerra, ma la rivoluzione, a differenza di molte altre opere russe, non si impone minimamente al lettore, ma appare come uno spettro tra i tanti spettri di Pietroburgo, e grida a gran voce nel vento la sua rabbiosa promessa.

Questo romanzo è in definitiva un capolavoro del primo novecento russo, un immancabile opera che a ragione merita di essere posta tra le più brillanti creazioni della Russia del secolo appena trascorso, un’opera che parla dell’anima stessa della Russia, del suo peccato atavico, della sua condizione di perenne oscillazione tra l’Asia e l’Europa, della sua profonda crisi di identità, ma è anche un libro che punta la sua attenzione sulla splendente Pietroburgo, troppo europea per la Russia e troppo russa per l’Europa, una città che, come lo stesso Belji ha affermato, rimane sempre sospesa tra la terra ed il cielo.

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