Un uomo di strane vedute

Pregustando la gioia dell’arrivo in diocesi di mons. Pompili, il giornale diocesano desidera offrire ai suoi lettori l’opportunità di riflettere sull’identità e la missione del vescovo.

Il 5 settembre il vescovo eletto Domenico riceverà l’ordinazione episcopale nella nostra basilica cattedrale di Rieti ed inizierà così il suo ministero episcopale a servizio della nostra comunità diocesana.

Se la memoria non mi inganna, è da 90 anni che il vescovo di Rieti non veniva consacrato nella sua cattedrale. Era il 19 marzo del 1925 quando il reatino p. Massimo Rinaldi, missionario scalabriniano, eletto sette mesi prima a guidare la nostra chiesa diocesana, veniva ordinato vescovo dal cardinale Raffaele Merry del Val nella cattedrale di Rieti.

Sette vescovi si sono succeduti, dopo di lui, sulla cattedra di Orso primo pastore di Rieti, tutti ordinati altrove.

Non credo siano molti i reatini a conservare memoria della celebrazione di quel giorno di marzo del 1925, è quindi prevedibile che sarà per tutti una grazia in più poter partecipare al rito dell’ordinazione del nuovo vescovo nella cattedrale di S. Maria.

Pregustando la gioia di quel giorno, il giornale diocesano desidera offrire ai suoi lettori l’opportunità di riflettere sull’identità e la missione del vescovo.

Al n° 20 delle premesse al rito dell’ordinazione episcopale auspica che la comunità diocesana sia convenientemente preparata alla celebrazione dell’ordinazione del nuovo vescovo.

Percorreremo insieme il sentiero liturgico, sentiero per molti inusitato, in genere frequentato solo da esperti o “patiti” di liturgia. Eppure già mi sembra di scorgere lo stupore sul volto di molti, appena ci si renderà conto della fecondità, della bellezza, della freschezza, per molti versi inedita, del nostro tentativo di comprendere chi sia il vescovo a partire dal rito attraverso il quale la Chiesa lo consacra.

La Chiesa crede ciò che celebra e celebra ciò che crede. Lasceremo che siano i sacri riti a raccontarci chi sia il vescovo, a svelarci la sua identità, a tracciare le linee portanti del suo ministero.
Prima, però di imboccare il suddetto sentiero, ci sia permesso di indugiare sul termine con il quale designiamo il credente che viene messo a capo della comunità diocesana.

Il sostantivo “vescovo” deriva dal greco episkopos. E’ una parola composta: il verbo skopéo (io guardo), è preceduto da una preposizione epì (dall’alto). Il vescovo è dunque uno che guarda dall’alto.

Il suo ruolo è stato comunemente interpretato come quello di un “sorvegliante”. Questo termine evoca dolorose vicende di schiavi in terra d’Egitto che molto ebbero da soffrire a causa dei loro sorveglianti (Cf. Esodo 1,11). Descrive comunque il compito di chi deve osservare qualcuno, magari allo scopo di tenerlo sotto disciplina, per prevenire errori o castigare abusi; in un’ottica più positiva è compito del sorvegliante occuparsi e magari preoccuparsi di coloro che sono affidati alla sua sorveglianza affinché siano custoditi e preservati da tutto ciò che può nuocere.

Sinceramente mi sembra un modo riduttivo, per niente esaltante di interpretare il ruolo del vescovo.

“Guardare dall’alto” più che un compito, esprime la necessità di scegliere il punto prospettico da cui guardare l’orizzonte.

Un vescovo è chiamato a guardare il mondo, la storia e sopratutto gli uomini “dall’alto”, con la stessa prospettiva con la quale li guarda Dio.

“Guardare dall’alto” è guardare con gli occhi e con il cuore di Dio, è vedere come Dio vede.

Tra i credenti, il vescovo, è un credente che sa far suo lo sguardo di Dio; un credente alla ricerca non di ciò che è meglio o perfetto, ma di ciò che, qui ed ora, è secondo il cuore di Dio. Il suo non è il ruolo di un abile stratega capace di offrire soluzioni ad ogni problema, ma di aiutare tutti a far propria l’ottica divina, a guardare ogni cosa con la pupilla di Dio. Il vescovo è colui che aiuta la sua chiesa a fare una necessaria conversione: cessare di scrutare le vicende dell’uomo dal basso ed iniziare a contemplarle “dall’alto”. Conversione in questo caso diventa con-visione. La conversione sarà vera, autentica, feconda nel momento in cui i credenti saranno capaci di “con-vedere” insieme con Dio, vedere da dove vede Lui, quello che vede Lui, come vede Lui. Conversione è cambiamento di direzione, uno sguardo nuovo sull’esistenza.

Per tornare alle antiche vicende di schiavi in terra d’Egitto, mentre i sorveglianti preposti dal faraone si preoccupano di come far rendere al massimo i loro sottoposti, non importa a quale prezzo, “dall’alto” Dio vede l’afflizione del suo popolo, e comincia a tessere una preziosa e segreta trama di salvezza (Cf. Esodo 3,7-9).

Lo sguardo “dall’alto” è sguardo di compassione e di benevolenza; lo sguardo “dall’alto” è uno sguardo che provoca sempre a fare esodo, ad intraprendere cammini di libertà, a passare dall’umiliazione della schiavitù alla dignità del servizio; a mutare il lamento in danza, la veste di sacco in abito di gioia.

“Guardare dall’alto” non è, non può, non deve neppure lontanamente evocare arroganza. Colui che dall’eternità guarda il mondo “dall’alto”, è stato capace di scendere fino agli inferi per far dono all’umanità di un nuovo e più vasto orizzonte di vita.

Ci aiuti il nuovo vescovo ad essere credenti di nuove e più ampie vedute: non le nostre, non le sue, ma quelle di Dio.

Più che un sorvegliante il vescovo è un contemplativo, non solo perché i suoi occhi devono essere sempre rivolti verso Dio, ma perché sa far proprio lo sguardo di Dio.