Cultura e costume

Un Natale diverso

Il Natale raccontato in altro modo

Narrazione, poesia, arte, musica: ogni forma della creazione umana è stata alimentata dalla Natività, che ha, tra l’altro, ispirato nuove e inattese svolte culturali, artistiche e umane, come quella del Botticelli “finale”: dopo una straordinaria carriera alla corte medicea a rincorrere la perfezione dei corpi e soprattutto degli sguardi, l’autore della Primavera decide di “tornare” all’immagine elementare e simbolica dell’icona, dipingendo nel 1501 una Natività mistica, oggi alla National Gallery di Londra: la ricerca prospettica, il formalismo naturalistico sono aboliti per lasciare spazio all’immagine mariana che, pur se spazialmente arretrata, è più grande di tutti gli altri corpi – angeli, umani – che appaiono nella scena. Solo il messaggio della Madre e del Bambino contano in un’opera in cui tutto il resto sembra schiacciato dal prima dell’avvento della prospettiva e che rivela, dopo i messaggi apocalittici di Savonarola, che Botticelli aveva ascoltato e drammaticamente interiorizzato, la volontà di rinuncia alle finezze per tornare al Senso. Il richiamo dell’icona mariana è straordinariamente forte. Un po’ quello che accade in “Elizabeth Costello” (2003) del grande scrittore sudafricano John M. Coetzee, in cui una suora ammonisce un pubblico fatto di specialisti di letteratura che le loro finezze non servono a nulla e che il rischio è quello di servire “il mostro della ragione meccanica”.

Se è per questo anche oggi il quarto magio di “Per un’altra strada” (2020) di Mimmo Muolo ammonisce a lasciar perdere le raffinate esegesi fini a se stesse per riprendere l’interrotta strada – tanto vituperata da alcuni intellettuali – del cuore. Solo affidandosi alla nostalgia di qualcosa che è già stato nostro possiamo ritrovare quella strada, l’unica che può riportarci, in spiritu, a Betlemme. E contro una ragione fredda e senza pietà anche il laico Pascoli scrive, ai primi del Novecento, “Le ciaramelle”, dove si rimpiange il ricordo commosso del Natale d’un tempo, che forse celava le chiavi per aprire il cuore del mondo. In polemica con un altro idolo, stavolta il denaro, si era battuto in un suo celebre racconto del 1843, “Cantico di Natale”, Charles Dickens, denunciando, negli anni del decollo economico dell’Inghilterra un’accumulazione fine a se stessa che trascina via dagli altri, perché instilla il dubbio che quegli altri stiano con te solo per interesse, e questo è assai peggio che la povertà. Ed infatti i poveri sono i veri protagonisti di un messaggio che attraversa il tempo e che giunge intatto fino a noi. La cultura fine a se stessa e il denaro non sono i soli nemici della nostra vita. Anche il tempo che senza saperlo togliamo agli altri, all’arte dell’incontro che ci renderebbe felici, e che invece ignoriamo per avere in cambio molta fretta di non andare da nessuna parte, come ci ricordava la poesia di Michel Quoist su quello che ha fretta e che non fa altro che dire “scusi, non ho il tempo/ripasserò, non posso attendere, non ho il tempo/ avrei voluto aiutarla, ma non ho tempo”.

Perché oggi, quando vediamo gente morta assiderata nei boschi di confine o nelle vie della civilissima città, non ci accorgiamo più, anche con la scusa della pandemia, dell’altro in carne, poca, e ossa. Eppure già nella seconda metà dell’Ottocento Dostoevskij ci aveva ammonito, con uno straziante racconto, “Il bambino sull’albero di Natale”, a guardare bene per strada, perché ci sono piccoli che sognano non il panettone, ma un pezzo di pane, e muoiono di fame sognando un presepe di accoglienza e amore. Senza calcolare che ci sono state storie tenute da nessun conto al loro nascere, usate come libro da donare agli amici dopo averlo stampato in proprio, come nel caso di “The greatest gift” dell’americano Philip Van Doren Stern, e che poi è divenuto il celeberrimo “La vita è meravigliosa”, un film da cinque candidature all’Oscar 1946 con la regia di Frank Capra. Nulla è mai come sembra, un bambino che nasce in terra di nessuno, nella allora sconosciuta profonda periferia imperiale, non a Roma, né ad Atene, e nemmeno ad Alessandria o a Costantinopoli, diventa la nuova via. Quella povertà scelta dovrebbe dirci molte cose, come le ha dette a chi è andato a finire i propri giorni lì, come san Gerolamo. Ma noi facciamo come l’uomo cantato da Quoist: andiamo di grande, spesso inutile, fretta.

Dal Sir