C’è umanesimo in “Interstellar”

La pellicola di Christopher Nolan si candida a capolavoro della fantascienza

Tra i registi contemporanei più interessanti, che propongono pellicole in grado di suscitare meraviglia, stupore e soprattutto riflessioni, si deve annoverare anche il nome di Christopher Nolan. Fin dal suo secondo film, infatti, “Memento”, storia di un uomo affetto da amnesia a breve termine che si tatua sul corpo le indicazioni per non dimenticare la sua identità e soprattutto per scovare chi gli ha ucciso la moglie, questo autore inglese ha dimostrato di saper realizzare un cinema esteticamente e narrativamente complesso, pieno di domande su argomenti fondamentali. Dal concetto d’identità nel mondo contemporaneo postmoderno, al rapporto tra realtà e sogno, fino alla ricerca del senso dell’esistenza. Temi affrontati nei successivi “The prestige”, nei tre capitoli di Batman, “Il cavaliere oscuro” e in “Inception”. Oggi con “Interstellar”, kolossal fantascientifico da 165 milioni di dollari, è come se avesse deciso di condensare in un’unica pellicola tutti questi elementi. Il risultato è un film “monstre” di ben 3 ore che si pone, e ci pone, di fronte al mistero dell’universo, della vita, dell’amore. Un’opera che, per ambizioni e realizzazione, non può non confrontarsi con la pietra miliare del cinema di fantascienza filosofica che è 2001: “Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick.

Una piaga sta uccidendo i raccolti della Terra, da diversi decenni l’umanità è in crisi da cibo e quasi tutti sono diventati agricoltori per supplire a queste esigenze. La scienza è ormai dimenticata e anche ai bambini viene insegnato che l’uomo non è mai andato sulla Luna, si trattava solo di propaganda. L’ex astronauta Cooper, mai andato nello spazio e costretto a diventare agricoltore, scopre grazie all’intuito della figlia che la Nasa è ancora attiva in gran segreto, che il pianeta Terra non si salverà, che è comparso un “warmhole” vicino Saturno in grado di condurli in altre galassie e che qualcuno deve andare lì a cercare l’esito di tre diverse missioni partite anni fa. Forse una di quelle tre ha scoperto un pianeta buono per trasferire la razza umana e in quel caso è già pronto un piano di evacuazione.

Andare e tornare è l’unica maniera che Cooper ha di dare un futuro ai propri figli. Il background scientifico del kolossal poggia sulle solide basi della consulenza di Kip Thorne, uno dei fisici teorici più famosi al mondo, grande esperto di relatività generale. Proprio come Kubrick si era documentato minuziosamente per la sua pellicola. Entrambi, dunque, partono da una base scientifica precisa per sviluppare il loro discorso sul senso dell’esistenza dell’uomo e del mondo. Ed entrambi usano al meglio gli effetti speciali che hanno a disposizione per realizzare un’opera immersiva, capace di condurre lo spettatore all’interno di un’esperienza audio-visiva inglobante. Ma a differenza di Kubrick, Nolan inserisce nel suo film una trama narrativa forte ed emotiva (il rapporto tra il padre che parte e lascia i suoi figli), che permette di seguire lo svolgimento delle tre ore dell’opera senza un attimo di tregua, e soprattutto una riflessione sull’amore come unica vera risorsa per sopravvivere e permettere il continuare della speranza e della vita. Il nichilismo kubrickiano non trova spazio nella pellicola di Nolan, che ha il merito, anche se all’interno di un racconto che a volte sembra perdersi, discontinuo, in cui non tutto è perfettamente riuscito, di essere attraversata da un profondo umanesimo.