Troppi intellettuali tristi

Vedi lo sguardo di certo cinema italiano, mentre il Paese prova a reagire

C’è un’Italia che aspira all’Oscar. C’è poi un’Italia che l’Oscar lo ha già vinto. Alla prossima edizione degli Academy Award a Hollywood, per il nostro paese è stato candidato “Il capitale umano” di Paolo Virzì con Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Valeria Golino, Fabrizio Gifuni e Luigi Lo Cascio. Si tratta di un film di ottima fattura (ben scritto, splendidamente interpretato e diretto con maestria) che però racconta un paese senza speranza, cupo, autolesionista e cinico. Peccato.

C’è infatti un’altra immagine dell’Italia che, al contrario, risulta vincente, accattivante, piena di ardore e, soprattutto, di speranza. Si tratta di quella parte del paese che, nonostante la crisi, sta esportando in tutto il mondo il meglio del “made in Italy”. A cominciare, ad esempio, dallo stupefacente successo del negozio al numero 200 della 5th Avenue a New York aperto da “Eatily”, la catena internazionale di distribuzione di prodotti alimentari italiani fondata nel 2000 da un altro Oscar, Oscar Farinetti. Imprenditore dalle ambizioni smisurate, Farinetti ha capito da tempo che, per far di nuovo trionfare il nostro tricolore nel mondo, si deve puntare sull’entusiasmo e sulla voglia di fare delle tantissime imprese italiane dell’agroalimentare e del design: in Italia ce ne sono migliaia e sfornano ogni giorno cibi e bevande di sontuosa eccellenza e prodotti di straordinario fascino.

Farinetti, ovviamente, è solo uno dei tanti imprenditori italiani che hanno saputo intercettare questa grande “fame” internazionale d’Italia. Si tratta di un appetito globale che chiede (che pretende) la massima qualità e uno sguardo più sereno sulla vita. Il nostro cinema invece, per un incomprensibile masochismo di una parte della cultura italiana, continua a puntare il dito sulla parte più oscura e meno condivisibile del paese. Nascondere i vizi sarebbe un errore sciocco, nessuno lo discute. Dimenticarsi delle virtù, che in Italia abbondano, è però un peccato imperdonabile. Il nostro paese, risulta così diviso a metà. Da una parte ci sono migliaia di imprenditori piccoli e grandi che, ogni giorno, si svegliano e affrontano la giornata cercando un raggio di sole e un sorriso da inscatolare con i loro prodotti. Dall’altra ci sono invece i profeti di sventura, intellettuali tristi che trovano la loro soddisfazione personale solo nella denuncia quotidiana dei tanti mali che affliggono il nostro paese. Senza voler psicoanalizzare nessuno, rimane senza risposta la domanda sui motivi che spingono una fetta così significativa della nostra cultura a raccontare esclusivamente un’Italia affaticata dalla crisi e resa insensibile dalla bruttezza.

Si tratta anche di un paradosso storico. La nostra migliore tradizione culturale infatti è sempre stata caratterizzata da una dolce sudditanza ai criteri del “bello”, del “buono” e del “giusto”. Basta chiederlo agli storici della musica, della letteratura e delle arti figurative. Dal dopoguerra, invece, gli intellettuali più dotati di talento hanno dedicato le loro energie e la loro fantasia alla ricerca del “brutto”, del “cattivo” e dell’”ingiusto”. Per anni si è parlato della necessità civile della denuncia e della stortura antidemocratica dell’omertà. Si tratta di due principi che non possono non caratterizzare la vita di un paese moderno. Purtroppo si è andati troppo oltre. La cultura italiana sembra avere perso il contatto con una parte fondamentale del paese, con la parte migliore della nostra Italia. “Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto”, dice Valeria Bruni Tedeschi alla fine del film di Virzì. Appunto. Noi però rimaniamo con la medesima curiosità inappagata. Chi glielo ha fatto fare? Ma, soprattutto, cosa hanno vinto?