Cultura

Tornatore: «Ennio vulnerabile. Faceva ascoltare alla moglie per prima le composizioni»

Il regista Giuseppe Tornatore rievoca la sua lunga amicizia e collaborazione con il noto compositore al quale ha dedicato il film documentario "Ennio", nelle sale cinematografiche da oggi 17 febbraio

“All’epoca io ero veramente poco più di un ragazzo e conoscevo Morricone, perché conoscevo tutte le sue musiche, e ovviamente non mi immaginavo neanche di poter pensare a lui, per cui escludevo addirittura di chiederglielo. L’idea fu del mio produttore che gli propose di fare il film; lui in un primo momento rifiutò perché era impegnato, poi il produttore lo convinse a leggere la sceneggiatura: Ennio lesse e mi chiamò, mi convocò a casa sua, e da lì per trentadue anni di fila abbiamo sempre lavorato insieme, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto con lui, tutte le musiche del film successivi le ho sempre fatte con lui”. Con queste parole il regista Giuseppe Tornatore ricorda con Vatican News l’inizio della sua amicizia e collaborazione con Ennio Morricone, il grande compositore – scomparso il 6 luglio 2020 – al quale ha dedicato un film documentario dal titolo “Ennio”, al cinema da oggi 17 febbraio.

Il produttore di cui parla, lo ricordiamo, era Franco Cristaldi, e l’impegno precedente non era di poco conto, era un film con Jane Fonda e Gregory Peck, quindi un film importante…

Il film che lui doveva fare era “Old Gringo”, aveva questo impegno nello stesso periodo in cui avrebbe dovuto registrare le musiche del mio film e quindi lui ovviamente in un primo momento rifiutò. Poi invece leggendo il copione si appassionò, e rinunciò al film con Jane Fonda e Gregory Peck, credo anche pagando una penale.

Quello che colpisce vedendo il film è vedere la straordinaria vulnerabilità di Ennio Morricone, un uomo di tale successo, le cui musiche sono notissime in tutto il mondo, che ha vinto due Oscar… Si immaginava una assoluta sicurezza in quest’uomo. Invece stupisce vederlo così fragile, così vulnerabile; dipende ovviamente anche dalla confidenza che aveva con lei e quindi anche dall’umanità che ha lasciato trasparire nella vostra intervista. Ma si ha la sensazione che fosse proprio un tratto fondamentale della sua sensibilità d’artista, giusto?

Giusto, la cifra caratteristica di Ennio uomo – e ovviamente anche di Ennio artista – era questa coesistenza in lui di dolcezza e durezza, dolcezza e vigore. Essendo un uomo di grande successo, avendo scritto musica che tutti conoscono, la gente se lo immagina come un uomo di grande successo, quindi un uomo felice, chiuso entro i confini della propria felicità, della propria gioia, invece era un uomo come tutti noi, tormentato dalla rincorsa alla perfezione, dal dubbio che la sua proposta musicale non fosse quella giusta rispetto al film che veniva chiamato a musicare. Quindi un uomo molto padrone, veramente molto padrone del suo mestiere, ma allo stesso tempo molto sensibile, quindi molto suscettibile di dubbi, di incertezze; e secondo me era questa dicotomia la chiave della sua genialità. Quindi vederlo nel documentario così com’era nella realtà, simpatico, brillante, e anche tormentato dai suoi eterni dubbi di musicista, lo rendono una figura per certi versi da scoprire, nuova. Forse per questo il film sta riscuotendo molta curiosità e molto interesse da parte del pubblico.

Si potrebbe dire che c’è sempre stato in lui un desiderio di riscatto: dopo aver studiato al conservatorio, ha voluto in qualche modo dimostrare che la sua attività nel campo della musica leggera e poi nel campo del cinema fosse nobilitata da un reale talento di compositore, da una reale capacità musicale, mentre invece probabilmente non ha avuto, perlomeno all’inizio della sua  carriera – forse anche per il grande successo che intanto cominciava ad arridergli – l’apprezzamento dei suoi colleghi, delle persone che lui  comunque ha continuato a stimare… 

Lui si è trovato a cavallo tra due mondi, a cavallo tra due epoche. La sua vocazione originaria era quella della musica assoluta, della musica classica, e questo suo punto di riferimento è rimasto stabile per tutta la sua vita; però lui aveva avuto sin dall’inizio la duttilità mentale di capire, di intuire che si andava verso un mondo in cui l’articolazione, l’applicazione, il consumo della musica stava per rivolgersi a un mondo completamente nuovo. E ha capito che la sua arte di grande musicista classico poteva benissimo trasversalmente essere applicata al mondo della musica di consumo, della musica popolare, delle canzoni, della musica da varietà, della musica per il teatro, e quindi per il cinema. Lui aveva avuto questa grande intuizione in anticipo sui tempi. Il mondo accademico dal quale lui nasceva questa intuizione non l’aveva avuta; loro ritenevano che questo suo avventurarsi in applicazioni commerciali della musica fosse in qualche maniera una sorta di tradimento dei principi puri della musica, quasi una sorta di prostituzione professionale, e questo lo faceva soffrire. Quindi lui usava spesso la parola “riscatto”. Quando si trovava a dover comporre anche il pezzo più semplice, anche più banale del mondo, lui doveva sempre trovare all’interno di quel piccolo brano umile, semplice, popolare, una chiave di sperimentazione musicale che superasse questa umiltà di applicazione e gli desse l’eterna sensazione di essere uno con le mani in pasta nella musica seria. Veniva chiamato magari ad arrangiare una canzonetta di facile consumo, e lui all’interno di quella canzonetta inseriva degli arrangiamenti sperimentali alla stregua di Wagner, sperimentando applicazioni dei principi della musica dodecafonica applicate alla musica tonale. Poi per la gente quella era una canzonetta: gli autori non lo sapevano, i cantanti non lo sapevano, il pubblico non lo sapeva, ma ascoltando quelle canzoni avvertiva qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo; infatti se ancora oggi andiamo ad ascoltare le canzoni che Ennio arrangiava all’inizio degli anni Sessanta, senti subito che c’è qualcosa di diverso, anche se non capisci perché: perché dentro c’è questo processo che lui chiamava di riscatto del compositore, che lo induceva a trattare qualunque elemento semplice, banale, della musica più popolare, come se invece fosse una grande sfida musicale.

Uno degli aspetti più interessanti del film è che Ennio Morricone riesce a spiegare con grande semplicità, con grande chiarezza, queste sperimentazioni. Lei faceva riferimento poco fa alle sperimentazioni sulla scala tonale, che sono presenti per esempio nella canzone “Se telefonando”, oppure l’uso del flauto di Pan in “C’era una volta in America”, o dell’urlo del coyote nei western di Sergio Leone. Una intuizione di cui poi sembra lui si fidasse completamente, e qualche volta si è anche trovato un po’ in contrasto con alcuni dei registi che magari volevano, forse un po’ presuntuosamente, imporgli le proprie idee o i propri desideri rispetto alla musica, quando invece fidarsi di lui significava entrare in un mondo inimmaginabile.

Ma è proprio questo. Lui aveva una veramente straordinaria intuitività e aveva anche questa straordinaria chiarezza di pensiero per cui qualunque idea musicale complessa lui riusciva a spiegartela con grande semplicità, cantandola anche, cercando di avvicinarsi il più possibile agli interlocutori che ovviamente non sempre erano in grado di comprenderlo, anzi la maggior parte delle volte si trattava di gente che non conosceva, che non masticava il linguaggio della musica, la tecnica della musica. Ecco, lui in questo era straordinario. Poi in genere il regista, e anche i produttori, tendono a sollecitare nel musicista la ripetizione di formule che già lui ha sperimentato e che hanno avuto successo, quindi l’istinto, l’impulso del regista e del produttore è di chiedere al musicista di rifare sempre sé stesso. Invece Morricone era un vulcano di idee nuove. Per lui, consumata una partitura musicale per un film, il prossimo diventava una sfida nuova. Allora il fatto che gli chiedessero: Ci fa un tema come quello di “C’era una volta in America”, ci fa un tema come quello di “Nuovo Cinema Paradiso”, per lui era come una tortura perché si sentiva costretto a tornare indietro, mentre lui voleva sempre andare avanti. Poi ci riusciva perché riusciva a farsi comprendere, a far capire agli altri che le sue nuove proposte sarebbero state sempre migliori rispetto al meccanismo consueto della ripetibilità di pezzi che hanno già avuto il favore del pubblico.

Nel suo film appare, in maniera molto delicata, il rapporto di Ennio con sua moglie Maria ed è uno degli aspetti fondamentali della vita privata di Ennio Morricone.

Quella è una storia d’amore meravigliosa, perché, come dice nel film Caterina Caselli, Maria Morricone è riuscita in tutta la sua vita a creare un perimetro di difesa intorno a Ennio Morricone rispetto al mondo che lo circondava, rispetto alle difficoltà della vita quotidiana. Un perimetro di difesa che gli consentisse di dare libero spazio, libero sfogo alla sua genialità. Quindi è stata una donna custode della genialità, della libertà del genio di Ennio Morricone. Possiamo dire che senza Maria non ci sarebbe stato l’Ennio Morricone che conosciamo. E lui ne era consapevole. L’uno non poteva esistere senza l’altra. Maria è una donna di una sensibilità fuori dal normale che ha saputo – non deve essere stato facile – vivere a fianco ad un genio, con tutte le difficoltà che talvolta i geni comportano. Lei è stata lì tutta la vita, gli ha consentito di inseguire la sua idea di musica senza essere troppo penalizzato dalle amarezze della vita quotidiana, dalla difficoltà della vita quotidiana. Un ruolo straordinario, un “assist” meraviglioso e quindi Ennio la ricorda anche nel film come un meraviglioso consigliere. Per esempio, dice di non essere stato mai un bravo giudice dei suoi temi musicali; lui certe volte scriveva dei temi musicali bellissimi che lui stesso invece, per la sua eccessiva capacità di essere autocritico, talvolta finiva per  scartare, e allora a un certo punto della sua vita lui capisce che il primo interlocutore delle sue composizioni deve essere la moglie: lui componeva dieci temi da proporre al regista, ma prima li faceva ascoltare alla moglie. Lei, grazie a questa sua sensibilità semplice, innocente, di pubblico normale, gli indicava quelli che secondo lei erano più interessanti. Lui scartava il resto e faceva sentire ai registi solo le musiche che prima erano state approvate dalla moglie. Questo è straordinario, uno non penserebbe mai che un genio della musica sottoponga alla moglie le musiche da far circolare, da proporre ai registi, ma Ennio era così, era così semplice, così legato alla moglie da averla nominata primo selezionatore del suo lavoro, e questo è meraviglioso.

Un’ultima domanda. Probabilmente è difficile scegliere, ma delle colonne sonore che Morricone ha scritto per lei, ce n’è una che ricorda con particolare emozione?

Devo dire una cosa: io ho lavorato con Ennio Morricone per trentadue anni, e ogni volta che ci si metteva lì per un nuovo film, io lo sapevo già dal primo momento che lui avrebbe fatto una musica straordinariamente aderente al film, e una musica che mi sarebbe piaciuta moltissimo. Lo sapevo sempre, eppure Ennio riusciva a sorprendermi tutte le volte, quindi in realtà non saprei scegliere la colonna sonora che preferisco. Ma se proprio dovessi essere costretto a individuarne una, direi “La migliore offerta”, non perché fosse una musica migliore delle altre, ma perché in quel film Ennio – che non era più un ragazzino, era già quasi novantenne – inventò un modo completamente nuovo di comporre la musica per il cinema, e ne era talmente fiero e orgoglioso da lasciarmi intendere che fosse particolarmente felice di quel risultato. Quindi indico quella più in omaggio a questo suo orgoglio, a questa sua soddisfazione, che non perché io la ritenga migliore delle altre colonne sonore che lui ha composto per i miei film.

da Vatican News