Torino città dell’eutanasia? Bluff radicale

Raccolte 5mila firme delle 50mila necessarie. Ma basta per dire che certi ”valori” sono fiorenti? Quando si devono affrontare i grandi problemi della crisi, quando manca il lavoro e i bilanci familiari sono magri, quando è in gioco il futuro dei ceti popolari, da quel mondo non viene mai una proposta.

Torino è la città dove si sono raccolte in assoluto più firme per il nuovo referendum radicale volto a legalizzare l’eutanasia. Sui banchetti del centro storico sono state registrate oltre 5mila adesioni, sulle 45mila complessive – 50mila sono quelle necessarie a presentare una proposta di legge d’iniziativa popolare. Per i Radicali torinesi è “un successo”, chiaramente. Un successo che, nelle cronache locali de “La Stampa” essi trasferiscono e attribuiscono alla “cultura” della città. Come dire che qui, più che altrove, si ritrovano fiorenti e coltivati quei “valori” di diritti individuali che i Radicali considerano non solo il sale della democrazia ma anche il senso della vita.

A noi pare che le cose non stiano esattamente così, non foss’altro perché qualche centinaio di voti in più di altre città non contribuisce a conferire nessuna particolare “patente di laicità”. La “quota” di Torino e del Piemonte nelle statistiche dell’Italia è intorno all’8%: 8% del prodotto interno lordo, 8% dei consumi e così via. Quando, come in questo caso, si raggiunge il 9%, dov’è la notizia?

Una verità è che la “cultura radicale” è ben presente in città, soprattutto in quei circoli che sono sempre accolti e ascoltati nelle pagine dei quotidiani laici, che “guidano” la cultura cittadina anche quando a questo primato di presenze e citazioni non corrispondono numeri e partecipazioni popolari (se ricordiamo bene anni fa, alle elezioni comunali, Marco Pannella propose all’allora candidato sindaco Chiamparino di scegliersi come vice un esponente radicale. Chiamparino chiese: “Ma quanti voti porta?”. Si scoprì, a urne aperte, che ne portava meno di un migliaio; il vicesindaco di Chiamparino fu un popolare della Margherita…).

Ci sono poi altri argomenti, e più seri. La cultura radicale (ben più che il partito o l’organizzazione dei Radicali) ha sempre goduto, a Torino, di grande attenzione. È elemento di quella mitologia subalpina che si parla sempre addosso e sembra, per molti versi, essersi fermata ai tempi dell’antifascismo militante o a quelli, già meno gloriosi, di Luigi Firpo e Vittorio Gorresio. Ma questa cultura non rappresenta da sola Torino, né può pensare di egemonizzarne l’immagine. Soprattutto in tempi come questi, quando Torino è chiamata ad affrontare una delle crisi più dure e pesanti della propria storia, e le preoccupazioni dei cittadini vanno piuttosto al lavoro, ai bilanci familiari, alla necessità di costruire concrete prospettive di futuro. Intorno a questi “tavoli”, dove si ritrovano la Chiesa e le culture popolari, i rappresentanti delle istituzioni, del sindacato, degli stessi imprenditori, non si è mai sentito parlare di qualche contributo, qualche idea, qualche iniziativa che venisse dalla “cultura radicale”…

La campagna sull’eutanasia e le firme raccolte qui nascono al traino d’idee maturate altrove in Italia e in Europa; e a Torino e in Piemonte non riescono certo a tradursi, più che altrove, in atti di governo o di alta amministrazione. Qui, come in altre Regioni, sono state fatte scelte precise per favorire, più che l’eutanasia, la rete degli “hospices” e la “cultura” – questa sì andrebbe con la maiuscola – delle cure palliative (anche se, è ben vero, ci fu un governatore del Piemonte che dichiarò fin troppo in fretta la disponibilità della Regione ad accogliere “a qualunque costo” Eluana Englaro…).