Il Tempio “invisibile”: una lezione per l’oggi

Cancellare i grandi simboli religiosi (in Medio Oriente soprattutto) significa riportarli in quella dimensione immateriale che, grazie alla Rete, li rende davvero universali, “patrimonio dell’umanità”. Rimane, certo, il simbolo dei simboli, la Spianata delle Moschee dove oggi è sempre più difficile salire. Lì c’era il Tempio degli Ebrei, distrutto 1944 anni fa da Tito.

Anche la tomba di Giona se n’è andata, sotto i bulldozer del (sedicente) califfato. Come se ne andarono i Buddha afghani, spinti nel nulla dai Talebani. Distruggere i grandi monumenti restituisce alla guerra una dimensione simbolica che i conflitti più recenti avevano volutamente nascosto (le guerre del Golfo ci vennero presentate come “chirurgiche”; certi interventi di Israele in passato avevano la stessa ambizione). Ma l’Hitler del 1940 aveva le idee chiarissime, quando diceva che non valeva la pena distruggere Parigi: avrebbe reso Berlino così bella da far dimenticare i fascini della capitale appena conquistata.

Oggi, però, cancellare i grandi simboli religiosi (e in Medio Oriente soprattutto) significa soltanto riportarli in quella dimensione immateriale che, grazie alla Rete, li rende davvero universali, “patrimonio dell’umanità”. Chi di noi, a parte gli specialisti e i conoscitori professionali, aveva mai visto il monumento di Mosul? E anzi, la stessa distruzione provoca, in Occidente, una reazione emotiva o politica di grande rilievo – mentre è sempre più difficile stupirsi e indignarsi per i troppi bambini e civili morti a Gaza.

Questo “sonno dell’Occidente” è parte integrante della guerra che spinge di nuovo nel baratro l’intera regione, dal Mediterraneo alla Mesopotamia al Golfo Persico. L’illusione delle primavere arabe ha prodotto una guerra civile in Libia, squilibrato l’Egitto, acceso in Siria un conflitto che nessuno poteva permettersi – né l’America e l’Europa, né la Russia e la Cina. La guerra che Israele e Hamas hanno ripreso sembra avere ragioni politiche più contingenti e più precise: consente al premier israeliano di guadagnare tempo nelle trattative per la costituzione di un vero Stato palestinese; e, indebolendo la Fatah di Abu Mazen, regala ad Hamas quel poco di “ossigeno” che consente la sopravvivenza di un movimento indebolito sia nella ragion d’essere che nella strategia di lungo termine (che cosa sarebbe Hamas il giorno in cui venisse proclamato davvero lo Stato palestinese?).

Netanyahu sembra aver messo nel conto, ancora una volta, che il sostegno a Israele non venga mai a mancare in modo significativo nell’opinione pubblica americana, primo riferimento politico, strategico e finanziario di Israele; e sembra valutare come poco importante il crescere delle reazioni negative alla guerra in Europa: visto il peso scarsissimo che l’Unione riesce ad esercitare persino per ottenere qualche tregua, diventa difficile dargli torto.

Il ritorno dell’instabilità nell’intera regione obbliga a ripensare come appunto in Medio Oriente rimangano evidenti più che altrove i “costi” delle scelte occidentali. Il disastro di Bush jr. in Iraq è “figlio”, nemmeno tanto illegittimo, del patto segreto siglato nel 1916 a nome di Francia e Gran Bretagna da Sykes e Georges-Picot; a quell’epoca e a quella concezione geopolitica risalgono le spartizioni dell’area in “Stati nazionali”, alla moda europea, che non avevano alcun riscontro storico ed etnico nelle istituzioni e nelle tradizioni arabe e ottomane. L’Occidente ha voluto – cento anni fa come dieci anni fa – imporre qui i suoi “simboli”, correndo il rischio di trascurare tanto la storia quanto la geografia; e ha ottenuto di evidenziare quanto i nostri valori “universali” siano a rischio, prima ancora che di contestazione, di radicale incomprensione (Lo scacco delle diplomazie e degli eserciti, naturalmente, restituisce il giusto valore e la corretta prospettiva ai gesti di Francesco, a quella preghiera comune e a quegli ulivi piantati insieme. E rende ragione, se mai ce ne fosse bisogno, della forza profetica di Giovanni Paolo II all’inizio del millennio).

La strategia americana sembra ripercorrere, in modi diversi, le stesse strade. La “spartizione del mondo” continua nella globalizzazione commerciale e finanziaria, nella colonizzazione linguistica e culturale; continua con quel “grande accordo commerciale transatlantico” tra America ed Europa di cui si parla troppo poco. Rispetto al passato non mancano alcune importanti differenze: le guerre l’Occidente oggi le perde o al massimo le pareggia (Corea, Vietnam, Somalia, Jugoslavia, Afghanistan…). Quanto alla guerra fredda, chi potrebbe dire che è davvero finita?

Prima della sciagurata “esportazione della democrazia” degli anni 2000 ci sono state altre “esportazioni” di modelli europei che hanno portato frutti per lo meno contradditori, in mezzo a popoli e territori dove la convivenza – forzata o no che fosse – di etnie e religioni diverse era la norma. A Mosul e non solo proprio i “luoghi santi” sono sempre stati il punto d’incontro naturale dei tre monoteismi, il simbolo di quel continuo ritorno alle fonti comuni: accade a Damasco per la tomba di Giovanni Battista, a Efeso per la “casa di Maria”. Nella Palestina i decenni di guerra hanno congelato questi santuari trasformandoli in fortezze assediate, come le Tombe dei Patriarchi a Hebron. Ma ad ogni turista viene ricordato che il Santo Sepolcro non diventò moschea per la lungimiranza e la tolleranza di Omar, che non andò a pregare in quel luogo…

Rimane, certo, il simbolo dei simboli, la Spianata delle Moschee dove oggi è sempre più difficile, per chiunque e soprattutto per gli occidentali, salire. Lì c’era il Tempio degli Ebrei distrutto 1944 anni fa da Tito, rappresentante del massimo potere dell’epoca. Proprio la fine che ha fatto quel Tempio è una lezione per l’oggi: nessuno ne conserva l’immagine, la descrizione forse è quella contenuta nel libro dei Re; e però la figura “invisibile” del Tempio e la sua memoria hanno messo, in questi venti secoli, radici in tutto il mondo – per gli ebrei come per gli islamici e i cristiani.