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“Tacete o maschi”: le poetesse che nel Trecento zittirono Petrarca

Raccolti in un volume i testi attributi a un gruppo di autrici attive nelle Marche verso la metà del XIV secolo

Adesso basta: gli uomini hanno parlato fin troppo, questo è il momento delle donne. No, non è un commento alle polemiche delle ultime settimane e in questione questa volta non c’è la persistenza del manel, la seduta di convegno (panel) in cui il maschio (man) la fa da padrone. L’episodio più eclatante, com’è noto, è stato quello del Festival della Bellezza svoltosi a Verona tra fine agosto e metà settembre, con una partecipazione femminile talmente ridotta da suscitare prima un confronto molto accesso e poi la replica di “Erosive”, controfestival tutto di donne ironicamente ispirato al tema – Eros – della manifestazione contestata.

Di rappresentanza equilibrata e allargata, in realtà, si ragiona da molto tempo, come dimostra un prezioso volume realizzato da Argolibri, intraprendente marchio editoriale di Ancona che ha voluto intervenire in modo molto originale su una vicenda a lungo dibattuta dagli storici della letteratura. In Tacete, o maschi (pagine 72, euro 18,00) i curatori Andrea Franzoni e Fabio Orecchini riproducono infatti i testi attributi a un gruppo di poetesse attive nelle Marche verso la metà del XIV secolo. I sonetti di Leonora della Genga, Ortensia di Guglielmo e Livia da Chiavello affiorano in realtà solo nel 1580, quando Andrea Gilio da Fabriano li pubblica all’interno della sua Topica poetica. Verso la fine del Seicento tocca a Giovanni Cinelli portare alla luce una composizione di Elisabetta Trebbiani, mentre ancora successive sono le notizie su Giovanna d’Arcangelo e Giustina Levi Perotti.

Nel breve saggio che apre l’edizione attuale, Mercedes Arriaga Flórez e Daniele Cerrato parlano senza esitazione di una «generazione cancellata», ricordando come l’esistenza stessa di queste poetesse marchigiane sia stata messa in dubbio da quanti hanno sospettato che l’intero corpus fosse il risultato di una falsificazione erudita. La controversia non è del tutto estinta: a sfavore dell’autenticità gioca l’assenza di testimonianze manoscritte, le cui tracce non sono però impossibili da individuare nei testi in nostro possesso. L’ipotesi di un canzoniere apocrifo manca di una motivazione plausibile, è vero, ma resta che il fatto che la scoperta di Gilio avverrebbe in un momento straordinariamente favorevole, caratterizzato dall’ascesa della grandi poetesse del Cinquecento, da Vittoria Colonna a Chiara Matraiani.

Siamo, in ogni caso, nell’ambito di un petrarchismo molto consapevole, che ha il suo apice nel sonetto Io vorrei pur indirizzar queste mie piume (variamente accreditato a Ortensia di Guglielmo o a Giustina Levi Perotti) che meriterebbe addirittura la risposta “per le rime” dello stesso Petrarca. In questi versi è comunque una donna a prendere la parola, ribellandosi alla consuetudine che la destinerebbe «all’ago, al fuso, più che al lauro o al mirto», ossia alle piante che simboleggiano la gloria poetica. La rivendicazione più esplicita resta quella del sonetto da cui è tratto il titolo del libro e che porta la firma di Leonora della Genga. «Tacete, o maschi, a dir, che la Natura / A far il maschio solamente intenda, / E per formar la femmina non prenda, / Se non contra sua voglia alcuna cura», suona perentoria la quartina iniziale, la cui attualità è davvero difficile da negare.

Ed è a partire da questo dato che il volume di Argolibri procede in una duplice direzione. Sul versante dell’immagine agiscono le illustrazioni di Simone Pellegrini, che possono essere ben definite autentici falsi medievali, realizzati in uno stile che richiama alla memoria le lussureggianti diramazioni visionarie di Ildegarda di Bingen. Sul piano testuale, invece, interviene il dialogo tra le poetesse ritrovate e tre autrici contemporanee: Mariangela Gualtieri, che si rivolge con una lettera a Leonora («Nessuno da solo può fare il suo canto. / È voce d’insieme, vuole tutte le forme e sostanze / e attecchisce nel buio profondo / del fondo e anche sulle seccaglie più ardite»), Antonella Anedda che si diverte a correggere Ortensia («disubbidisci / stai fuori dall’elogio e dalla rima, diventa spensierata, / filosofa dei boschi, deponi la speranza e la paura / diventa un corvo, una cornacchia, trovati da sola») e Franca Mancinelli che scompone in frammenti i versi di Livia, di Elisabetta e della stessa Ortensia («hai scritto. Hai perso – carta / bianca, vita in estuario / per una diga e il suo specchio opaco»). Come se questo strano canzoniere indiziario non avesse ancora detto tutto quello che aveva da dire. Come se ci fosse sempre un’altra voce da ascoltare, e un po’ di silenzio da rispettare.

da avvenire.it