Strage di Garissa, dove sono i «Charlie»?

Quasi come svegliandosi dal sonno, o riprendendosi da una qualche distrazione, cominciano ad apparire in rete considerazioni sulla strage dei cristiani.

Con la tragedia di Garissa, in Kenya, con i 150 studenti indifesi uccisi dagli shaabab islamisti arrivati dalla Somalia, sembra che finalmente – e non senza fatica – le persecuzioni per ragioni di fede stiano rientrando nella coscienza comune.

Non ne parlano più solo il Papa, i siti internet confessionali, i nostri sacerdoti nelle omelie o «Avvenire». È addirittura Flavio Briatore dalle colonne de «Il Giornale» a domandare se «150 vittime in Kenya valgono meno dei 12 morti di Charlie Hebdo». Vuol dire che qualcosa sta cambiando.

Oppure no. Perché quando c’è stato l’attentato a Parigi tutti erano «Charlie»: in tv, sulle magliette, sulle bacheche dei social. La presa di posizione è arrivata pure sulla facciata del palazzo del Comune e sull’home page del sito istituzionale. E c’è stata anche una doverosa manifestazione pubblica e interculturale di solidarietà sotto il Municipio.

La strage di Garissa non sembra stimolare niente di tutto questo. Nessun comunicato stampa, nessuno striscione, nessuna iniziativa. Eppure il problema delle persecuzioni su base religiosa è diffuso e grave. E a guardare bene non riguarda neppure solo i cristiani.

Perché allora non si organizza nulla? Che sia per non fare un buco nell’acqua, per paura dell’insuccesso? Fosse così vorrebbe dire che il martirio incessante dei cristiani ci scandalizza, ma non troppo. Che le nostre società e istituzioni si mobilitano volentieri e giustamente per i martiri della libertà d’espressione, anche quando rassomiglia all’insulto, molto meno per quelli della fede.