«Spezzeremo le reni alla Grecia»

Da diverso tempo la costruzione europea sembra essere in forte crisi. Ma con le recenti elezioni in Grecia il dibattito ha subito un’accelerazione e le contraddizioni sembrano aver condotto il continente ad un bivio.

Sarà che la mia comprensione dell’economia è abbastanza grossolana, ma quando ho ascoltato alla radio l’intenzione del presidente della Bce Mario Draghi di voler interrompere il flusso di liquidità dalla Banca Centrale alle banche greche mi è subito tornato alla mente l’infelice slogan di Benito Mussolini: «spezzeremo le reni alla Grecia».

Qualcuno dice che quello di Draghi sia innanzitutto un atto politico. Altri, più asetticamente, ritengono che il governatore si sia semplicemente limitato a rispettare il mandato della Banca Centrale Europea.

Di sicuro con l’elezione di Alexis Tsipras il popolo greco ha chiaramente votato per la fine del circolo vizioso dell’austerità. E coerentemente il nuovo Governo sembra avere ingaggiato sul tema un braccio di ferro con il resto d’Europa – e soprattutto con la Germania – il cui esito rimane ancora incerto.

Un continente in contraddizione

Ciò che invece emerge con forza è la drammatica contraddizione tra un progetto europeo disposto e gestito dall’alto, e la resistenza dal basso dei cittadini – non solo greci – che soffrono nelle proprie carni i tagli richiesti dall’austerità, dalla regola cabalistica del 3 per certo nel rapporto tra debito e pil, dalla prospettiva del pareggio di bilancio.

Centro e periferia

Messa sotto questo giogo, dell’Europa intesa come Comunità si direbbe rimasto ben poco. Al posto della solidarietà nella difficoltà sembrano essersi affermate le sole ragioni del più forte. Con la scusa delle proprie prestazioni economiche, i Paesi “virtuosi” si sono messi al centro dell’Unione e stabilito quali popoli stanno alla periferia. E forse in questa manovra hanno anche approfittato della confusione generata da una crisi della quale, in fondo in fondo, nessuno capisce un accidenti.

Dal basso verso l’alto

In compenso sono sempre di più quelli che non vedono di buon occhio i rimedi escogitati finora. Sono stati tutti all’insegna del socialismo di Stato per i ricchi e le banche, mentre ai poveri e al ceto medio è stato riservato il più feroce neoliberismo.

In questo senso le periferie in Europa si sono fatte più complesse di quanto non appaia a prima vista. Perché alla semplificazione geografica tra nord e sud, si sovrappone in modo trasversale una colossale quanto paradossale redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto.

La cura, nonostante sia all’origine di manifeste ingiustizie, continua ad essere ossessivamente ripresentata ai Paesi indebitati con l’argomento della “mancanza di alternative”, ma in maniera e in gradi diversi ha permeato un po’ tutta l’Unione. Al punto che ad avere le reni spezzate non è solo il popolo greco. In realtà sono milioni di individui di ogni Paese.

Realtà e ideologia

Al netto di ogni malizia – e semplificando parecchio – questo pessimo risultato potrebbe essere addebitato ad una mal riposta fiducia nella presunta razionalità dell’economia. Un’ideologia che sembra aver reso i governi ciechi dal punto di vista politico e sociale e alla quale dobbiamo un’Europa lacerata, problematica, ingessata da complicatissimi patti fiscali. Regolamenti in nome dei quali le Costituzioni e la stessa democrazia sembrano come svuotate di senso.

In ascolto delle periferie

In questa situazione non c’è da stupirsi se il popolo occupa sempre più spesso le piazze di Atene o di Madrid in segno di protesta. Piuttosto ci sarebbe da dar retta a Papa Francesco e mettersi davvero in ascolto di queste periferie.

Sembrano dire che per impedire il crollo dell’euro stiamo tirando tremende bordate ai valori europei fondamentali. Lo si legge nello smantellamento dello stato sociale, nella resurrezione dei pericolosi nazionalismi da cui l’Unione ci doveva salvaguardare, nel venir meno di un equilibrio sociale garantito dall’equa distribuzione di diritti e doveri.

Nei discorsi ufficiali la crisi viene interpretata con le categorie del debito, dei deficit di bilancio, dello spread. Ma quanto si agita nelle periferie fa pensare che il problema sia più profondo. Porta a domandarsi come sia stato possibile che l’Europa sia divenuta oggetto di un odio così diffuso. Induce a pensare che la questione vera sia la misura in cui l’Unione può e vuole realizzare le aspirazioni originarie del progetto europeo.

Segnali positivi

Nel mezzo di questo disastro, si prova quasi sorpresa o imbarazzo nel riconoscere qualche segnale positivo. Nulla di straordinario: giusto l’embrione di una possibilità da cogliere nel fatto che la crisi non solo ha lacerato il continente, ma in qualche modo ha anche avvicinato gli europei tra loro.

In fondo oggi seguiamo gli sviluppi della vicenda greca più o meno con la stessa attenzione che dedichiamo ai problemi locali. E a pensarci bene i giovani precari e i cinquantenni esclusi dal mercato del lavoro condividono la stessa condizione in tutto il continente. Intanto il tema “Europa” è passato dalle pagine interne alle prime pagine dei giornali, per poi entrare stabilmente tra i comuni discorsi quotidiani.

Potrebbe voler dire che sta nascendo una coscienza europea più diffusa, concreta e consapevole di quella retorica e vaga di qualche anno fa. Forse ci vorrà ancora del tempo perché si traduca in una forza capace di superare tanto l’astratta ortodossia di Bruxelles e Strasburgo quanto l’evidente inadeguatezza degli stati nazionali.

Ma almeno sembra emergere un’ipotesi politica su cui lavorare. E di questi tempi poco non è.