“SpaceShip Two”: il disegno insabbiato

Conquista commerciale dello spazio e ricerca di infinito.

Il disegno si è cancellato tragicamente il 31 ottobre con la morte di uno dei due piloti della navicella “SpaceShip Two” schiantatasi pochi minuti dopo lo sganciamento dalla nave madre “WhiteKnight Two”. Si è fermato, almeno per ora, il progetto del magnate britannico Richard Branson a cui appartiene la compagnia Virgin Galactic impegnata nella realizzazione del cosiddetto turismo spaziale. E’ fallito il test programmato per inaugurare un’avventura tra le stelle riservata, almeno all’inizio, a pochissime persone. Il disegno è stato coperto dalla sabbia di un deserto della California.

Pur già segnato da un lungo elenco di incidenti spesso mortali, l’arrembaggio commerciale al cosmo continuerà e tra non molto si tornerà a parlare della “SpaceShip Three”.

Si può, anzi si deve, entrare in valutazioni di ordine scientifico, tecnologico e commerciale ma la domanda più importante, la domanda sul significato ultimo di queste costosissime iniziative non può essere silenziata.

Perché questa corsa assolutamente dispendiosa alla conquista dello spazio? Perché questi enormi investimenti mentre nel mondo c’è chi muore di fame e di malattie?

Perché non impiegare queste risorse economiche nella ricerca scientifica per rispondere alle angosce di persone e popoli? Può un’avventura dai costi vertiginosi essere giustificata solo perché sostenuta da un’impresa privata?

Domande più che legittime e che nascono anche in chi, ai bordi della cronaca, si imbatte in notizie che sembrano venire da un altro mondo.

Ma il pensiero, senza abbandonare perplessità e dubbi sulla conquista commerciale dello spazio, cerca altre strade e non legge in “SpaceShip Two” solo l’azzardo di chi impiega i propri soldi per imprese ad altissimo rischio.

E così, con le doverose distinzioni, vengono alla mente le parole di Paolo VI, il 20 luglio 1969, alla vigilia dell’allunaggio: “Oggi è un giorno grande, un giorno storico per l’umanità, se davvero questa sera due uomini metteranno piede sulla Luna. Noi con tutto il mondo trepidante, esultante e orante auguriamo possa felicemente avvenire. Faremo bene a meditare sopra questo straordinario e strabiliante avvenimento…”.

In quel “faremo bene a meditare…” Paolo VI invitava alla lucidità, a non farsi imprigionare nella rovente esaltazione collettiva. “Nell’ebbrezza di questo giorno fatidico, vero trionfo dei mezzi prodotti dall’uomo, per il dominio del cosmo – diceva – noi dobbiamo non dimenticare il bisogno e il dovere che l’uomo ha di dominare se stesso”.

A distanza di tanti anni da quel giorno queste parole confermano che non c’è contrasto ma c’è la richiesta di un’alleanza tra fede e scienza. E’ con questa alleanza che si possono compiere percorsi straordinari per raggiungere mete assai più distanti da quelle ambite dalle navicelle spaziali.

Questi percorsi incominciano dentro l’uomo, sono le risposte alla sua ricerca insopprimibile di Infinito. Ed è ancora Paolo VI a ricordarlo: “chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio”.

Tutto questo può avere un qualche collegamento con un’impresa spaziale puramente commerciale, con un progetto che punta a fare affari, con esperimenti costosissimi anche sul piano umano?

Forse qualche collegamento esiste. Chi sta ai bordi della cronaca cerca sempre tra le righe di una notizia la traccia di qualcuno che, nonostante limiti, errori e calcoli, è esploratore prima di se stesso e poi di altri mondi. Il disegno insabbiato in un deserto della California riporta le parole di Paolo VI: “Faremo bene a meditare…”. Faremo bene a meditare sulla differenza tra l’essere custodi e l’essere padroni dello spazio. Faremo bene a meditare sulla differenza tra un disegno che esclude e un sogno che accoglie.