Solo notizie positive. Dialogo con Maurizio Rossi

Al giorno d’oggi siamo talmente immersi nei media e nei loro messaggi che quasi non li percepiamo più. Il nostro rapporto con i giornali, la televisione e la rete è scontato, quasi “trasparente”. In sé non è un male, tuttavia può essere utile fermarsi a riflettere sui meccanismi attraverso cui l’informazione diviene cultura.

Per provare a ragionare sul rapporto tra i media e la città, abbiamo pensato di rivolgerci a Maurizio Rossi. Romano di nascita – ma reatino d’adozione – con la sua Monti TV è tra i pionieri riconosciuti dell’avventura del video on-line nel nostro Paese. Oggi, sotto il marchio “Rieti News – Tutta la città ne parla” è tra i protagonisti dell’informazione cittadina indipendente, soprattutto grazie ad un uso intensivo ed intelligente dei social network.

Maurizio, la rete ha cambiato il mondo dell’informazione?

Mah, in premessa c’è da considerare che è cambiato proprio il modo di fare informazione, anche su Internet. Quando abbiamo avviato la nostra prima WebTV, quasi 15 anni fa, si tendeva a creare il prodotto per far entrare il pubblico “in casa propria”, cioè per farlo cliccare sul proprio sito. Oggi ci sono tanti portali che fanno informazione multimediale – testo, foto e video – ma difficilmente l’utente va a scrivere “www punto qualcosa” sul browser. Di conseguenza il discorso che faccio insieme ai miei collaboratori è quello di invertire il “senso di marcia”. Cioè non cerco più di attrarre i navigatori sul mio sito, ma mi sforzo di portare loro le notizie direttamente “dentro casa”. È un po’ quello che fa la televisione, ma il processo non è altrettanto passivo. Giocando sui social, prevalentemente su Facebook, facciamo in modo che la notizia trovi il suo pubblico.

Ma questa strategia cambia il modo in cui ci rapportiamo alla notizia?

Beh, prima la notizia in un certo senso era “subita”, si guardava il video o si leggeva il testo e finiva lì. Oggi con i social gli utenti la notizia tendono ad aumentarla. Guardiamo Twitter: lavora sull’hashtag, una parolina che identifica un certo argomento ed ogni utente associato può commentare e integrare l’informazione. Al punto che ormai è cosa comune che giornali e telegiornali riprendano la notizia da Twitter. L’informazione “social”, partecipata, non vede più il giornalista che dà la notizia e basta. Al limite è il punto di partenza, ma lo segue una schiera di persone comuni, non particolarmente autorevoli, che la integrano, la arricchiscono e le danno supporto. Questo è quello che cambia: fino a poco tempo fa questo meccanismo era impensabile. Non è che chiunque potesse andare in televisione e commentare i fatti.

E non è una grande illusione?

Beh, c’è gente convinta che se scrive su Facebook il mondo lo sappia. Questo perché molte persone non capiscono bene come funziona: non sanno che anche se hanno 3.000 contatti, il loro post lo vedrà solo il 10 o il 15% di questi. Che poi sono sempre gli stessi con i quali interagiscono, e la metà è composta di amici e parenti! La questione è che sui social bisogna saper lavorare.

Sembra un contesto ricco di opportunità. Ma non mancano le contraddizioni. Ad esempio assistiamo ad una sorta di verticalità dell’informazione: la principale fonte giornalistica – almeno nel panorama locale – sembra essere il comunicato stampa, dunque una notizia già “formattata”, pronta alla pubblicazione, ma per questo anche “addomesticata”. La cosa sembra contrastare con la presunta orizzontalità dei media moderni…

Beh, il giornalista dovrebbe lavorare sulla notizia. Ogni articolo dovrebbe essere diverso da giornalista a giornalista. Il comunicato stampa dovrebbe servire per dare l’input, una base su cui lavorare. L’arte del “copia e incolla” nella quale un po’ tutti siamo maestri, è un passare la velina senza metterci nulla. E quando “così fan tutti”, la pluralità dell’informazione muore. Manca un pensiero più o meno critico su ciò che è successo. Il tutto va poi visto, ovviamente, caso per caso. Ma specialmente nei fatti di cronaca questa abitudine riduce i colori della narrazione.

Infatti l’omologazione delle testate, soprattutto on-line, è molto evidente. Secondo te perché non si fanno altre scelte?

Forse per pigrizia. O perché ci si è messi in testa che conta il «sono arrivato prima» anche nella pubblicazione della velina. Se perdo tempo a ricamare sulla notizia, a cercare più informazioni, non faccio in tempo ad arrivare primo. Ma la velocità avrebbe senso se parlassimo di una notizia originale, di un’ultim’ora. Ma a smaniare per pubblicare per primo la nota che annuncia che fra un mese c’è un qualche evento mi pare poco utile.

Questo però non succede con il video: almeno fino ad ora è necessario andare sul posto e parlare con le persone. E il tempo della scrittura viene sostituito da quello del montaggio e della “messa in onda”…

Sì, e su Rieti c’è da dire che le infrastrutture non aiutano. L’orografia del territorio, ad esempio, impedisce una copertura ottimale di telefonini e rete internet. Una situazione che ci obbliga più che mai a creare servizi leggeri, veloci, immediati. Ma questo è vero in generale: il contenuto in rete dev’essere molto veloce. La WebTv delle origini è diversa da quella di adesso: non si può più copiare la televisione. La rete ha la sua specificità, anche per il modo di stare davanti allo schermo: un conto è stare sdraiati sul divano col telecomando in mano, un altro è stare seduto davanti al computer. La questione è che la tv la “vedi”, internet lo “guardi”: il contenuto te lo vai a cercare. E se qualcosa non va clicchi subito altrove.

Se invece il prodotto funziona comincia subito a girare…

È vero, e i nostri video piacciono innanzitutto ai protagonisti. A tutti piace rivedersi e risentirsi e sono loro a condividere per primi i contenuti. Alla fine sono loro a far girare i nostri prodotti. Come dicevo prima, in rete occorre fare spesso il contrario di quello che normalmente si crede di dover fare. L’oggetto del nostro lavoro non è quasi mai il “c’è stato”, ma il “ci sarà”: lavoriamo sull’annuncio. E cerchiamo sempre di guardare al positivo: non vogliamo fare come Striscia la Notizia o Le Iene. Queste cose non funzionano perché le fanno già bene gli utenti a soli: le foto al telefonino e due parole sui social sono alla portata di tutti i malumori. Il gruppo “Io Amo Rieti” su Facebook, da questo punto di vista, è straordinario. Ma il compito che ci siamo dati noi è quello di far vedere ciò che va.