Siamo la prima generazione veramente non cristiana della storia

Un tempo nuovo. La descrizione dei segni della novità è stata fatta su molti versanti. Viviamo in una società liquida (Bauman), abbiamo fiducia solo in ciò che facciamo noi e abbiamo perciò perso la capacità di percepire le cose come un dono (Finkielkraut). Un simile atteggiamento ha distrutto il legame con la realtà (Zambrano) e siamo diventati quindi esperienza di noi stessi (Scola), condannandoci alla solitudine. In questo clima, i valori cristiani si sono trasformati in un puro riferimento sentimentale (Guardini) e anche l’ideale etico e universale dell’Illuminismo è fallito (Ratzinger).

L’elenco potrebbe essere più dettagliato, ma chiunque abbia mantenuto le normali relazioni sociali derivanti dalla vita lavorativa, familiare e sociale sa documentare quello che è il segno dominante: la mancanza di stima per se stessi che ci pervade. Nei momenti migliori per chi è rimasto più lucido è evidente la necessità di un abbraccio che soccorra la nostra indigenza; nella maggioranza domina una violenta chiusura che rende più profonda l’oscurità. In questa situazione i proclami etici si trasformano in pietre al collo del condannato che cerca di non affogare nelle acque del volontarismo. Lo diceva a suo tempo anche Peguy: siamo la prima generazione veramente non cristiana della storia.

Ai nonni restava il ricordo di un bel museo dove Gesù e sua madre, con qualche personaggio biblico, riempivano qualche angolo della mente e del cuore. Per i padri e i loro figli queste immagini sono sparite e sono già due generazioni alle quali non arrivano neppure gli ultimi resti del naufragio. Non servono le vecchie soluzioni. Non ci riferiamo alla tradizione affermata senza esame critico, né alla identificazione di una determinata nazione o cultura con il credo, né a quel “naturaliter cristiano” con il quale si ricostruì l’Europa del dopoguerra e nella quale non era in discussione il fondamento delle certezze condivise. Sono diventate vecchie le soluzioni che fino a poco tempo fa sembravano perfettamente valide, anche ai più moderni. Dalla metà degli anni ‘70, tra le menti più brillanti del mondo cattolico si è sviluppata una reazione interessante alla colonizzazione culturale di matrice laica, liberale o marxista.

Di fronte alla tempesta del post concilio e al predominio della decostruzione sessantottesca ci fu chi alzò la voce e costruì qualcosa che non fosse solo un discorso senza nessuna forma di presenza che rendesse chiare le cose. Più tardi, quasi due decenni dopo, anche alcuni settori della cultura e della politica laica, pur con qualche eccesso manicheo, rivendicarono il valore della migliore eredità occidentale. Tuttavia, a questo punto del secolo ventunesimo queste soluzioni si dimostrano inutili. In parte questa inutilità si spiega perché le formule degli anni ‘80 e ‘90 si sono via via semplificate e allontanate dalla realtà. Dove c’era il desiderio di recuperare una solida esperienza è rimasta solo la ripetizione di una dottrina buona, dove c’era il proposito di superare il dualismo tra vita spirituale e vita politica ora troviamo il sogno di una egemonia politica e culturale che non tiene conto delle circostanze. Dove c’era una lotta vigorosa perché si udisse una voce diversa nella società pluralistica, e anche molta originalità, è rimasto il lamento per la perfidia di questi tempi.

Le formule di due decenni fa sono invecchiate anche perché le persone non sono più come prima. Secoli di secolarizzazione sono riusciti a distruggere ciò che era chiaro ed evidente per il cieco che mendicava all’ingresso dell’agora greca, anche prima dell’avvento del cristianesimo. Neanche le comunità di buoni amici che si difendono dalla tempesta con affetto sincero e in cui si tenta di affermare i veri valori resistono all’ondata, né servono certe mediazioni sociali e politiche. La politica, anche se riuscisse a formare maggioranze parlamentari disposte a recuperare certi principi minimali che renderebbero più umana la nostra società, non è di per sé la soluzione.

Il diritto, per quanto si rivendichi il suo valore educativo, non ha effetti miracolosi. Un partito può portare avanti con le migliori intenzioni la tutela legale di un valore fondamentale, ma tale protezione sarà inefficace e probabilmente controproducente se il sovrano (il popolo) si rifiuterà di accettarla. È necessario chiederci ancor di più qual è il valore che diamo alla libertà come criterio al quale la verità deve sottomettersi per essere riconosciuta nel modo che merita. Fino a non molto tempo fa ci bastava dire che il Governo non salva – il che implica respingere qualunque forma di teologia politica – o che la politica deve sempre avere come criterio il bene del popolo: si fa politica perché abbiano spazio le opere di nuova umanità. Allo stesso modo, si rifiutava qualunque pretesa di dominio per far passar certi valori mediante una posizione elevata. Tutto questo continua a essere valido, ma lo si pensa insufficiente di fronte al tempo nuovo.

Ci sono almeno due elementi che qualificano quanto precede. Uno è il realismo che ha sempre predicato la Chiesa, che è necessario porre nuovamente in gioco. Dalla metà degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80, le comunità cattoliche si sono viste coinvolte in battaglie politiche ingaggiate per difendere valori essenziali. Ora è urgente considerare fino a che punto è conveniente mantenere inalterata l’agenda quando sono sparite le evidenze che permetterebbero alla maggioranza della società di riconoscere quei valori. È realista mantenere questa agenda politica? È evidente identificarsi in forma quasi esclusiva con la difesa legale di un bene che non è riconosciuto socialmente? È questione di priorità e di energie. Senza dubbio è necessario continuare una battaglia per la libertà dei credenti in una società pluralista. Ma al di là di questa questione quale deve essere l’agenda? La seconda questione è metodologica. Affermare, nel momento in cui si fa politica, che siamo nel tempo della persona suppone che non le si dia meno valore, salvo sottolineare la precedenza assoluta del come sopra il cosa. Né la sostenibilità delle opere, né la difesa della propria libertà consentono un tipo di azione che per l’urgenza oscuri il valore della testimonianza, o per l’inerzia non sia basata sul riconoscimento del valore dell’altro e del rispetto della sua libertà. Vale di più un minimo progresso – o anche un regresso – in un bene politico che permetta di incontrare e provocare la libertà di chi pensa in un modo diverso, che una grande vittoria che oscuri il fatto che la politica è carità.

Sarebbe davvero un gran passo in avanti. Alla luce delle ultime terribili storie che siamo costretti a vivere. Nella Francia e di riflesso anche da noi.