«Sì, c’è un ritorno alla religiosità ma a bassa intensità»

Monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e presidente del Centro di orientamento pastorale, si interroga sulla Chiesa in uscita: “Sono 14 mesi che non dormo in episcopio. Vivo negli appartamenti che mi dà la gente. Vado al bar, cammino per strada. Saluto le signore. E al mattino vedo le persone che si alzano alle 5 per andare a lavorare. Oppure vado nelle movide la sera tra i ragazzi”.

“Non ci vogliamo definire fuori da questa storia, ma dentro questa nostra umanità convinti che possiamo imparare da tutti e che possiamo offrire a tutti la nostra speranza, che ancora e sempre è attesa”. Un invito pressante a entrare nella storia di “tutti gli uomini e le donne del nostro tempo” è rivolto ai partecipanti al Convegno ecclesiale di Firenze (9-13 novembre 2015) dal Centro di orientamento pastorale (Cop), organismo costituito da vescovi, sacerdoti e operatori pastorali laici con lo scopo di aiutare le parrocchie ad aggiornare il lavoro pastorale al contesto socio-religioso del Paese in continuo mutamento. La “Lettera ai partecipanti al Convegno di Firenze sull’umanesimo” è stata pubblicata al termine della 65ª Settimana nazionale di aggiornamento pastorale del Cop, che si è svolta a Frascati (Roma) dal 22 al 25 giugno sul tema “Il Regno di Dio tra già e non ancora. Una Chiesa in uscita in un mondo da custodire”. Ne parliamo con monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e presidente del Cop.

Che tipo di umanità emerge nei corridoi delle parrocchie?
“C’è in atto uno scardinamento culturale che ha messo in discussione tutti quei principi che molti di noi davano sostanzialmente per scontati. Se fino a qualche anno fa, per esempio, era del tutto evidente che l’essere umano era maschio e femmina, ora non lo è più. Di fronte a queste difficoltà, alcuni si chiedono come ricostruire una antropologia, cioè un modo di pensare l’uomo, che possa convivere con queste nuove sfide”.

Quali sono le domande più frequenti?

“Mi riferisco alla mia esperienza nel territorio attorno a Roma. Qui la difficoltà della vita cristiana non è la secolarizzazione né l’indifferenza. Notiamo piuttosto un ritorno alla religiosità. Ma è una religiosità di basso profilo, di bassa intensità. Mi spiego: si chiede il battesimo ma lo si vuole celebrare nel giardino di casa perché ‘è più bello’. Chi invece vuole fare la cerimonia dell’anniversario di matrimonio al ristorante, ‘giacché siamo tutti lì e poi andiamo a mangiare’. Il nostro sforzo è di trasformare queste persone da consumatori di beni religiosi in persone che riflettono, si pongono degli interrogativi, cercano di dare ragioni e motivazioni al loro pensare e si mettono in missione”.

E come si fa?

“Rinunciando alla visibilità e alla rigidità. Il che non significa adattamento al basso”.

E cosa significa?

“Qualche giorno fa sono andato alla trasmissione ‘AnnoUno’ su La7. Ho ricevuto poi delle lettere. C’era chi mi ha detto di non condividere la mia rigidità accusandomi di aver mancato di carità. E chi definendosi ateo e gay, mi ringraziava dicendomi che con me si poteva parlare. Questo per dire che ci possono essere diverse interpretazioni di quello che si dice e si fa. C’è comunque una consapevolezza sbagliata secondo cui la nostra Misericordia deve essere un abbassamento della verità. Ma non è così”.

E come è?

“Siamo una Chiesa che si lascia sfidare ma occorrono persone in grado di accogliere la sfida. Perché ci troviamo in un contesto di post-umanesimo e le reazioni possono essere diverse. C’è la testimonianza che è fondamentale, ma per me non è più sufficiente. C’è poi la soluzione kerigmatica-assolutista che dice in maniera perentoria, ‘questa è la fede, è così’. Oppure – ma è la strada più difficile – c’è il lavoro condotto su un piano di razionalità antropologico-filosofica. E infine c’è una quarta scelta, che è quella di riuscire a riprodurre nelle persone il concetto dello stupore e della meraviglia nei confronti della creazione e di Dio”.

Il Papa dice: “Preferisco mille volte una Chiesa incidentata piuttosto che una Chiesa ammalata” e “chiusa”. Come ci si sente a mettersi in uscita?

“In uscita devi aspettarti di tutto. Però ti dà una grande pienezza. Sono 14 mesi che non dormo in episcopio. Vivo negli appartamenti che mi dà la gente. Vado al bar, cammino per la strada. Saluto le signore. E al mattino vedo le persone che si alzano alle 5 per andare a lavorare. Oppure vado nelle movide la sera tra i ragazzi, perché solo lì capisci chi sono veramente e talvolta i ragazzi diventano tremendi di fronte alla vita più che rispetto alla morale. La gente non viene più da te. E se vengono, è per chiedere un lavoro”.

C’è chi ha paura di una Chiesa che si adatta troppo, chi di una Chiesa destinata a sparire… Secondo lei, come ne uscirete?
“Sono convinto che ne usciremo con meno sicumera, con meno certezze ma più verità. E c’è una bella differenza tra certezza e verità. Siamo ancora troppo sicuri del nostro tipo di impostazione ma ci siamo accorti di fare acqua da tutte le parti. I convegni non servono a niente. Lo abbiamo visto con Verona. Allora, occorre recuperare i dati e poi condividerli con la gente. Vorremmo un umanesimo che si ispira a Gesù e che riesce a prendere dentro tutti. Un umanesimo che ha un indirizzo e che sa crescere nella storia, che sa dare speranza e vivere a fianco dell’umanità, che è fedele e capace di evolvere con il tempo, indicandoti man mano dove andare”.