Se i terroristi dettano la scaletta dei telegiornali

Il giornalismo televisivo non ha ancora imparato la durissima lezione dell’11 settembre. Il pubblico televisivo rimane affascinato dalle sequenze girate, con i telefonini, da ragazzini poco più che analfabeti nei deserti più lontani del mondo. Come le immagini oscene del linciaggio di Gheddafi o come i terribili video delle decapitazioni selvagge messe in scena dall’Isis.

Il terrorismo riesce, purtroppo, ad usare i mezzi di informazione televisiva meglio dei giornalisti e dei producer dell’industria dell’entertainment. La torta macabra con i due grattacieli di pandispagna e cioccolato trafitti da due aeromodellini di plastica (un’immagine postata sui social da alcuni irresponsabili) è la rappresentazione simbolica del punto più basso raggiunto dall’informazione mondiale. Mentre in Italia i giornali si riempiono di stanche cronache sulla ripresa autunnale dei talk show e i sindacati dei giornalisti tv italiani sembrano più preoccupati degli aspetti contrattuali che della sostanza, l’informazione giornalistica per il piccolo schermo è stata completamente rivoluzionata dalla nuova strategia della comunicazione dell’orrore elaborata e prodotta dal terrorismo internazionale.

Tutto è cominciato con il crollo delle Torri gemelle. Si tratta di una strategia comunicativa che era stata percepita abbastanza chiaramente fin dall’inizio ma che, ancora oggi, non viene studiata in nessuna università del mondo. Quando l’11 settembre del 2001, con un tempismo televisivo perfetto, Al Qaeda fece schiantare il secondo aereo sulla torre del World Trade Center ancora intatta, tutto il mondo era già incollato davanti allo schermo del proprio televisore. Una capacità di regia televisiva ineguagliata nella storia del piccolo schermo. La comunicazione televisiva in quel giorno cambiò per sempre ma la complessa macchina dell’informazione non lo ha ancora capito. I broadcaster continuano a discutere senza fine dei compensi milionari delle star delle news. Il pubblico a casa, invece, rimane affascinato dalle sequenze girate con i telefonini, da ragazzini poco più che analfabeti nei deserti più lontani del mondo. Come le immagini oscene del linciaggio di Gheddafi o, oggi, come i terribili video delle decapitazioni selvagge messe in scena dall’Isis.

In Italia, purtroppo, manca la percezione del cambiamento. Per questi motivi fa riflettere il livello decisamente basso del dibattito italiano sui destini del giornalismo televisivo. I compensi di Giannini a Ballarò, per esempio, hanno scatenato gli appetiti del sindacato dei giornalisti della Rai. Protestano perché la Rai ha scelto ancora una volta un esterno e, soprattutto, perché lo paga meglio di qualsiasi giornalista di Saxa Rubra. A Mediaset, invece, i giornalisti tv protestano perché non vogliono assecondare le ristrutturazioni redazionali interne al Tg5 o al TgCom. Ci si mettono anche i giornalisti del Tg3 che hanno scritto una lettera di fuoco per protestare contro la razionalizzazione del sistema giornalistico della tv di Stato. Un dibattito che sembra “preistoria” rispetto alle nuove derive del giornalismo in tv. Mentre si litiga per stipendi e privilegi, infatti, le headlines dei telegiornali in tutto il mondo vengono decise a migliaia di chilometri di distanza da un manipolo di terroristi senza scrupoli e affamati di sangue. Nella nuova rivoluzione dell’informazione, rimane da dire, la tecnologia c’entra poco. In questo momento infatti, i danni maggiori vengono dalla lente appannata di una categoria professionale, quella dei giornalisti tv, che non riesce ad intercettare il cambiamento in corso.