Santi a Roma

Ci attende un altro bagno di folla a Roma, in piazza S. Pietro. Difficile, dire quasi impossibile, individuare altre occasioni simili di adunate oceaniche in un clima di festa. Festa, non altro. Spesso si assiste invece a ritrovi di massa legati a scioperi o a manifestazioni di estrema violenza. Anche lo sport talvolta è minato da questa matrice di rabbiosa contestazione, come gli incidenti l’anno scorso per la Confederation Cup in Brasile in attesa dei mondiali di quest’anno. A Roma, nella culla della cristianità, c’è però un’altra aria, un altro Spirito che soffia e si è come trascinati a forza dentro l’avvenimento di “turno” che il calendario propone. Questa volta l’attesa è per qualcosa di clamorosamente storico come la canonizzazione di due Papi che hanno lasciato un’impronta indelebile nella Chiesa: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.

Domenica 27 aprile verranno fatti Santi. Due Vescovi di Roma che sono entrati nel cuore del mondo con la potenza di una presenza di servizio che ancora oggi rappresenta un esempio da guardare ed un metodo da seguire. Sulla scia di un altro pastore che da un anno riempie piazze di città e del web sul filo di una continuità disarmante.

È il cammino di una Chiesa che conosce tempi e spazi e si adegua. Solo adesso, ad esempio, siamo pronti ad esaltare la saggezza di un Ratzinger, definendolo uno dei tesori del Vaticano, che non a caso il suo successore ha voluto accanto a sé dentro il recinto di S. Pietro. Il teologo tedesco, il professore bavarese ed il parroco del mondo, l’uomo delle periferie esistenziali. Entrambi hanno combattuto e combattono la stessa sfida al relativismo etico, favorendo il dialogo con il mondo ateo, con la Chiesa ortodossa, con i fedeli. Nel mezzo, tante diatribe, distillate in succhi di polemica gonfiati ad arte, dal caso Ratisbona all’uso del preservativo, dalla storia Williamson al furto dei documenti riservati nel torbido Vatileaks. Una stagione nera ed un inverno buio che però sembravano vicini ad una radiosa primavera. Così è stato. E Francesco ci sta aiutando a scorgere con il suo stile pastorale e la sua contagiosa tenerezza. La verità del cristianesimo è la verità di un amore che si fa vita e che attribuisce senso ad ogni esistenza. Papa Bergoglio rende visibile e dà testimonianza di ciò di cui l’uomo contemporaneo manca: la fede nella vita, che restituisce dignità alle azioni quotidiane, che dona una profonda serenità, che rende felici anche con poco. L’amore che contraddistingue il Dio di cui parla il Papa non è una melassa sentimentale. È un Dio che caparbiamente vuole bene ad ogni vita. Per questo egli ama tanto le persone comuni, i bambini, i malati. Non come luogo esibizionistico, ma come luogo teologico, dove la vita donataci dal Dio creatore esiste davvero. La tenerezza di Dio ha a che fare col senso dell’esistere: solo la singola vita, la vita concreta e reale, quella piena di speranza e di sofferenza, quella capace e quella ferita, conta agli occhi di Dio. E’ una Chiesa che cammina con il popolo. E perciò povera. Vuole pastori che conoscano l’odore delle pecore. E perciò he servono. Nel senso che si fanno servi. Come il Papa, “servo dei servi di Cristo”.

Ma il Papa è un uomo che “rappresenta” Cristo sulla terra: il segno visibile, carnale, umano di Gesù presente nel mondo. E il suo compito è appunto quello di non far perdere mai questo nucleo vivente della fede, cioè il riconoscimento che nella Chiesa continua – attraversando e sfidando il corso dei secoli – la presenza contemporanea del Dio fatto uomo. Il fatto è che però questa risposta dottrinale la si comprende realmente, nella sua portata esistenziale, passando attraverso l’individualità specifica di ognuno degli uomini cui è stato dato questo compito straordinario.

Per la Chiesa cattolica un Papa non è mai l’esito di un buon curriculum o di un profilo azzeccato, o almeno, se anche lo si volesse riportare a questo, come pure è avvenuto nella drammatica storia della Chiesa, non è mai esclusivamente l’esito di tali fattori; e ne è riprova il fatto che la catena infinita dei Vescovi di Roma, segno di unità e di universalità, non si è mai interrotta per motivi personalistici o strategici. Ma se un Papa è quello che è, per il fatto che la sua individualità personale è chiamata in qualche modo a divenire trasparente, pura testimonianza del suo Signore, d’altro canto è proprio perché si tratta di un uomo in carne ed ossa, come ciascuno di noi, che quella trasparenza diviene possibile e quella testimonianza diviene credibile.

Oggi, per tutti, la Chiesa è la Chiesa di “Francesco”: il fiorire impressionante di una passione incontenibile al singolo uomo, propria di Cristo. Ma questa fioritura, che gode senz’altro di tutto l’impeto umano di un uomo speciale, il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, non sarebbe letteralmente possibile senza la radice di un passato di volti e persone che hanno tracciato un solco percorribile e fecondo.

La ragione umana può “afferrare” il vero perché è continuamente afferrata da esso; e può amarlo perché il suo affetto si origina nell’esser-colpiti, affascinanti e anche feriti dalla realtà. Esattamente come accade o può accadere ad ognuno di noi, impegnato a rispondere alla sua “vocazione”, quando cioè scopre nella storia di incontri, eventi, problemi in cui consiste la vita, di essere chiamato ad “esserci” con tutta la sua persona e a contribuire al bisogno del mondo. È nell’avvertire questa chiamata semplicemente ad essere, che risiede il principio di comprensione e di affronto nuovo delle non poche crisi che attraversano il mondo, la Chiesa e l’esistenza di ciascuno. E bisognava forse rischiare il gesto davvero estremo della rinuncia, da parte di Benedetto, per comprendere di nuovo e far comprendere a tutti che l’inizio non è mai in nostro potere; e che il nostro vero potere sta nel seguire e affermare ciò che di più grande di noi è iniziato in noi. Pensare a Roma e a quello che accadrà il 27 è già un inizio di questo. Di quel grande che è in noi, ma che non vediamo.