Sant’Antonio Abate, un gigante nel deserto

Sant’Antonio Abate, eremita orientale, soggetto di arte bizantina e gotica

Ci sono due santi che si contendono il ‘primato’ del nome Antonio, l’uno è celebrato quotidianamente nella Basilica di Padova, veste il saio francescano e porta tra le braccia il Bambino Gesù, l’altro è l’eremita orientale che sfida il deserto egiziano per liberarsi dal clamore del mondo.

Ancora oggi Sant’Antonio Abate è ricordato nel calendario dei santi della chiesa cattolica che celebra la sua festa il 17 gennaio, ma la sua storia è molto antica e risale al IV secolo d.C. quando Atanasio, vescovo di Alessandria, che si considerava suo discepolo, scrisse il testo della ‘Vita di Antonio’, un vero ‘best sellers’ dell’agiografia del tempo, tradotto nelle lingue di tutto l’Oriente dal copto al siriaco, all’assiro fino a conquistare l’Occidente nella versione latina tradotta da Evagrio.

Nei secoli la storia dell’arte ha attinto a piene mani dal testo per tradurre in immagini le ‘avventure’ del santo eremita, i miracoli, le tentazioni del demonio e l’amore per la vita contemplativa. Oggi Sant’Antonio Abate ci è forse più familiare nelle immaginette dei nostri nonni, dove compare circondato dagli animali, in riferimento alla sua protezione su quel mondo agricolo che aveva ben altra importanza nella vita delle persone e attraverso la devozione garantiva una solidità al culto popolare.

Con la diffusione del “mito” antoniano, lungo la penisola si trovano numerosi esempi di rappresentazioni artistiche a lui dedicate. Siamo intorno alla fine del XII secolo e nel portico della Basilica benedettina di Sant’Angelo in Formis, in Campania, troviamo un ciclo di affreschi dedicato alla storia di Antonio abate e Paolo di Tebe.

Non si può infatti parlare di sant’Antonio senza menzionare Paolo, il primo eremita, colui che secondo quanto scritto da San Girolamo fu un modello per la vita dell’abate.

Gli affreschi del portico di Sant’Angelo, suggestivi per una koinè ancora legata alla temperie bizantina, sono collocati in quattro lunette e, nel guardare in particolare la scena dell’incontro tra i due eremiti con i volti che si toccano, nel gesto di comunione fraterna che caratterizza i primi cristiani, non si può fare a meno di pensare alle immagini più arcaiche degli apostoli Pietro e Paolo.

In Piemonte a Ranverso, all’ingresso della Valle di Susa, si trova uno dei più importanti luoghi del culto antoniano, ovvero l’antica Precettoria di Sant’Antonio Abate, dove l’ordine dei monaci, che dal santo ebbe origine, fondò un Ospedale per la cura degli infermi: Antonio è noto per essere un santo taumaturgo in grado di proteggere dal “fuoco” della malattia.

A Ranverso nella chiesa di Sant’Antonio Abate fu attivo Giacomo Jaquerio, raffinato artista del gotico internazionale il quale, con un linguaggio nordico e vicino alle mode d’Oltralpe, nella prima metà del Quattrocento realizzò, oltre alla celebre Salita al Calvario di Cristo, un intero ciclo dedicato alla vita del santo eremita.

In uno dei riquadri si nota la forza espressiva della pittura di Jaquerio: nella scena delle tentazioni dove si vede, da un lato una donna elegantemente abbigliata che si volge seducente verso il santo, rappresentato con l’abito scuro e una lunga barba, e dall’altro la lotta con i demoni, esseri mostruosi che lo percuotono violentemente con i bastoni tanto da costringerlo a proteggersi dai colpi fino a giacere a terra, sofferente ma non sconfitto.

Le tentazioni nella vita di Sant’Antonio sono declinate in ogni modo, c’è quella della lussuria, quella del potere o quella della ricchezza, ad ognuna l’abate resiste come un gigante nel deserto e nel silenzio della solitudine cerca e trova Dio.