Sanità: basta con la malattia trasformata in merce

Programmi di partito che dedicano alla sanità solo poche righe, proposte che si ripetono senza raggiungere un risultato, istituti, centri di studio e ricerca, associazioni, progetti che spuntano nuovi, ogni giorno, per proporre le stesse cose, alle stesse persone, con gli stessi risultati: il vuoto.

E allora viene da chiedersi: cos’altro dovrà accadere perché ci si renda conto che non è più il tempo per le chiacchiere, le divisioni, le inutili duplicazioni, solo per fregiarci di un titolo da stampare su un elegante biglietto da visita?

Che senso ha dire di avere a cuore il Servizio Sanitario Nazionale, che avrebbe bisogno della massima coesione di forze, limpidezza d’intenti, mentre si sta “lavorando” per realizzare l’ennesimo business alla faccia dell’etica, dell’equità, dell’universalismo?

Che senso ha professarsi “vicini” quando il nostro lessico è infarcito di universalismo selettivo, pilastri, assicurazioni integrative?

Che senso ha avere acquisito competenze che sarebbero preziose per la nobile causa della tutela della salute pubblica e lasciarsi invece andare ad un’accettazione passiva dello status quo, di un potere fagocitante cariche, denaro e salute?

Forse il senso risiede in una volontà di annientare le coscienze, di appiattire la visuale, così da offrire un panorama uniforme dove non emergono differenze – dunque possibili vie d’uscita – a una situazione che viene data per scontata.

Dopotutto, di ticket in ticket, di addizionale in addizionale, di imposta in imposta, le prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale stanno diventando sempre meno competitive; quelle offerte dal settore privato, al contrario, guadagnano terreno.

Attenzione, il segnale di allarme è assordante, far finta di non sentirlo non potrà che incrementare quel già preoccupante dato dei nove milioni di italiani che hanno rinunciato alle cure per mancanza di denaro.

Non possiamo continuare a parlare di sanità in termini di numeri, costi, fabbisogni – più o meno standard – e non pronunciare mai il termine investimento. Economico, a volte; sociale, sempre.

Lo si dimentica spesso, specie in quegli ambiti politici preposti a delineare il cammino, presente e futuro del nostro Paese, che la sanità è un potente regolatore sociale e un ottimo investimento. Anche in termini occupazionali.

L’aspetto, forse più tragico, è che la valenza sociale del nostro Servizio Sanitario sembrano ignorarla anche i cittadini, quando barattano dignità e diritti con la sudditanza, l’accettazione o l’assuefazione a pratiche delittuose che gravano sul sistema e sulle sue strutture, forse perché rincitrulliti dalla martellante retorica privatrizzatrice.

«I diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono e possono nascere», scrisse Norberto Bobbio. Perdere la tutela del diritto alla salute (o proseguire nel suo progressivo svuotamento di significato) – giova ricordarlo – ci lascerà tutti perennemente orfani di quella straordinaria conquista sociale.

Il tempo delle seconde possibilità è finito, come la società e la politica che nel giro di un decennio seppero regalare all’Italia e alla storia lo Statuto dei Lavoratori, la Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e la Legge Basaglia.

«I diritti nascono quando possono nascere» e vanno difesi con le unghie e con i denti quando tutto trama perché vadano persi. Sulla paura e il conseguente immobilismo generati ad arte da una crisi generata ad arte, abbiamo lasciato che sulle nostre teste passassero leggi e provvedimenti sempre più mortificanti i più elementari diritti di ogni essere umano.

Ora sappiamo che da qui in avanti ed in ogni campo in cui si svolgeva il nostro vivere civile, perderemo ogni giorno un pezzo di dignità. Proprio in un’epoca contrassegnata dalla facilità di comunicare, di avere informazioni, emerge il paradosso di una sempre più diffusa ignoranza delle problematiche e delle ripercussioni sociali di manovre e manovrine, di una scarsa consapevolezza, di un progressivo frastornamento e di uno svilimento persino della memoria di ciò che fu il nostro stato sociale.

Circa trentacinque anni or sono, vide la luce nel nostro Paese la Legge 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Proviamo a ripartire da quella, poiché il diritto alla salute di tutti e di ognuno può essere garantito solo da un sistema sanitario che operi in una dimensione interamente pubblica, in risposta al fallimento di quel processo di aziendalizzazione della sanità che negli anni Novanta ha fatto a pezzi l’importante riforma del 1978.

Basta con la malattia trasformata in merce, basta con le regole del marketing e dell’impresa in campo sanitario, basta con il foraggiamento dell’intrapresa privata e l’esternalizzazione dei servizi, che da eccezione, cambia in norma.

La sanità pubblica, prima ancora di essere diritto alla salute, alla cura e all’assistenza, deve essere rispetto e dignità della condizione umana, a prescindere da reddito, razza o religione. A prescindere da crisi create per intimorire, asservire, mortificare e sfruttare.

Scrive Cesare Beccaria: «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa».