Festa di San Felice a Cantalice. Mons Pompili: «Riscoprire la gratitudine e il valore della laicità»

Si sono svolti il 18 maggio a Cantalice i festeggiamenti in onore del compaesano san Felice. La cittadina natale ha ricordato con partecipazione Felice Porri, che nell’umiltà francescana diede lustro alla famiglia religiosa dei Frati Minori Cappuccini, di cui fu il primo a essere canonizzato, lui che nella Roma del Cinquecento divenne, da semplice frate cercatore, amico dei piccoli e dei poveri e insieme consigliere di papi e di futuri santi.

Un forte invito a ritrovare la gratitudine e la fiducia: è stato quello fatto dal vescovo Domenico celebrando ieri, a Cantalice, la messa a in onore di San Felice. Il compatrono della diocesi di Rieti si festeggia infatti il 18 maggio, giorno in cui si fa memoria della morte del Frate deo gratias, avvenuta nel 1587. E già il soprannome con cui il religioso era salutato «dai bambini agli adulti, dai nobili alle persone più povere» è, secondo mons Pompili, un punto di programma.

«Tutti – ha spiegato – dovremmo riscoprire questa qualità della gratitudine. Non è così scontata: a guardar bene, la nostra è una società nella quale la rivendicazione conduce facilmente alla divisione». Lo si legge anche dall’ultimo rapporto dell’Istat, dal quale emerge «la divisione incolmabile tra ricchi e anziani, tra ricchi e poveri». Una situazione che in gran parte viene da un atteggiamento interiore che vede ciascuno di noi «più portato a dare importanza ai propri diritti che non ai doveri».

Ecco allora l’importanza di riscoprire la virtù della gratitudine, un atteggiamento che tra le altre cose ci salva dall’idea che «la nostra sarebbe la situazione più drammatica». Basterebbe infatti stare ad ascoltare qualcuno «più avanti negli anni» per scoprire che «le cose oggi non sono più difficili rispetto all’immediato dopoguerra».

Cosa fare allora per riconquistare il perduto sguardo di gratitudine verso l’esistenza? Secondo il vescovo un insegnamento si può trarre dalla vita stessa di san Felice, ed è nel suo essere “laico”. Anche se portava il saio, infatti, «uno dei più grandi frati cappuccini, conosciuto in tutto il mondo» non fu mai sacerdote. Anche se a quel tempo diventare sacerdote era «una forma di garanzia»: il religioso decide di rimanere laico, «per essere più vicino alla gente, condividendone fino in fondo il destino».

San felice è stato un laico a tutto tondo e questa lezione è ancora in parte da apprendere.

Un invito rivolto in particolare alle confraternite, perché «essere “laici”» non vuol dire «essere meno impegnati nella Chiesa». In origine, ha ricordato don Domenico, la vita delle confraternite non consisteva del momento in cui si vestiva l’abito e si andava in processione. «Nel medioevo le confraternite erano qualcosa di molto più incisivo nel tessuto sociale. E ogni confraternita nasceva non semplicemente a partire da un santo, ma da una situazione di bisogno cui occorreva andare incontro».

Le confraternite si facevano carico degli “intoccabili”. Dei malati terminali, ad esempio: pensate a cosa fu la peste per tanti secoli in Europa. Chi se ne curava se non le confraternite? E poi gli anziani, le vedove, i bambini: mi pare che questo si a un richiamo molto concreto per chi oggi vuole essere parte di una confraternita.

«Non ci si può limitare a governare l’esistente – ha esortato don Domenico – si deve dimostrare nel concreto di essere vicino a quella che è la nuova forma di povertà». Solo così si esercita quella forma concreta della gratitudine alla vita che «non si accontenta di organizzare la festa del santo patrono, ma cerca di dare continuità al suo impegno durante l’anno, a livello formativo e anche operativo».

Foto di Massimo Renzi