Sallusti: lettere dal carcere

Ho sentito il bisogno di scrivere queste poche righe sulla vicenda del direttore de «Il Giornale», Alessandro Sallusti con l’intenzione di esprimere un po’ di solidarietà, visto che nel suo ambito lavorativo non sembrava averne avuta tanta. Più per umanità che per convinzione. Poi, in una sorta di moto di indignazione, mi è sorto qualche interrogativo.

Sallusti non mi è particolarmente simpatico e, diciamolo, delle due tipologie di antipatici lui appartiene a quella degli antipatici-antipatici; quella che consente agli antipatici-simpatici di paragonarlo, ironicamente, a Nosferatu il vampiro.

In un epoca in cui i celebri non-morti sono diventati l’icona del bel tenebroso – grazie anche ai belli del cinema che negli ultimi anni li hanno impersonati – per lui si continua a rispolverare la generazione dei Max Schreck, dei Bela Lugosi. Chi è disposto a dare la propria solidarietà a Massimo Spavento?

Ora, più convintamene di quanto mi aspettassi da me, eccomi!

Il primo sobbalzo – la mia sedia può testimoniarlo – è nato come istintiva reazione alle parole dell’ex magistrato Bruno Tinti che, il 2 dicembre 2012, intervistato da «Il Messaggero» ha dichiarato: «Nei confronti di Sallusti c’è una condanna della Cassazione. Ha mentito, si è rifiutato di pubblicare una smentita sul suo giornale e si è difeso sostenendo tesi ridicole. Di giornalisti finiti in prigione per diffamazione ce ne sono stati due in cinquant’anni di storia, Guareschi e Iannuzzi. Ciò dimostra che il problema non c’è. L’intera vicenda è una speculazione fatta da Sallusti, che ha la sindrome del condannato, insieme a tutta la casta che gli gira attorno».

Che si tratti di sindrome del condannato o di una vera e propria battaglia per la libertà d’informazione, sostenere che in cinquant’anni solo due giornalisti sono finiti in prigione per diffamazione dimostri «che il problema non c’è» non mi pare così tranquillizzante; anzi, mi fa venire il dubbio che il problema esista eccome. Una tragedia è una tragedia aldilà del numero delle vittime.

A confermarmi nella convinzione che la discussione riguarda una questione concreta si è poi aggiunto il tweet del portavoce del Quirinale, Pasquale Cascella: «Il Presidente considera tutte le ipotesi del caso, particolarmente complesso, che richiede responsabilità da tutti».

«Tutte le ipotesi», quindi anche la grazia? Sì, è vero, non sarebbe altro che un ricorso ad una delle prerogative che la Costituzione riconosce al Presidente della Repubblica; ma che, ad un battito di ciglia dall’arresto del direttore, può suonare anche come un intervento politico, una vera e propria presa di posizione. Quantomeno un rimprovero al Parlamento che non è riuscito in questi giorni ad approvare una legge su questo delicato argomento.

Nulla però mi aveva sconvolto quanto la rassegna stampa odierna (3 dicembre 2012): un articolo firmato dal direttore Sallusti che, nonostante sia agli arresti domiciliari, continua ad avere contatti con la sua redazione, a svolgere la propria attività.

Priviamo una persona della libertà a causa di una condanna per diffamazione aggravata, per un articolo del 2007 (quando era direttore responsabile di «Libero»), ma gli permettiamo di continuare a svolgere l’attività che ha reso necessario il provvedimento? Purché tenga le pantofole!

Signori, non è più una questione di Sallusti: si tratta di credibilità, e quei rudimenti di economia e di funzionamento dei mercati finanziari che in questo momento di crisi siamo stati, nostro malgrado, costretti a mandar giù ci hanno insegnato quanto questa sia fondamentale.

Siamo tutti seduti sopra un immensa cassa di banane, ed il rischio è quello più alto. Vietato perdere la faccia.

One thought on “Sallusti: lettere dal carcere”

  1. Ippoliti Bruno

    Da tempo ritengo che i giudici siano eletti democraticamente dal popolo. Il buon senso non si acquista con gli anni di studio. Dare quindi più pogtere alle giurie popolari. E’ troppo? Approvo in pieno il critico Roberto Rossi.
    Bruno Ippoliti

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