Un romanzo di Antonio Monda “L’indegno”

Un romanzo di Antonio Monda ci presenta la storia di un prete in crisi, non per motivi di fede, ma perché il mondo penetra sottilmente e profondamente anche là dove dovrebbe regnare lo spazio dello spirito e della rinuncia

“Quando abbiamo terminato suor Beatrice ha acceso la televisione, era la serata del quiz a premi. Sono rimasto a vederlo per un po’, poi prima di ritirarmi in camera, ho ringraziato il Signore per le mie fragilità, i miei desideri e le mie paure, che mi ricordano che sono un uomo. E l’ho ringraziato per la vergogna, che non è mai scomparsa, anche quella è grazia”.
“L’indegno” di Antonio Monda è tutto qui. Il romanzo (Mondadori, 151 pagine): il protagonista non smette mai il suo drammatico dialogo con l’Insondabile, proprio perché il Dio fuori-di-noi diviene il Dio dentro, proprio quando sembra che ci siamo perduti. Motivi che fanno sicuramente parte di una letteratura che va da Agostino a Chesterton, ma soprattutto al Bruce Marshall di “A ogni uomo un soldo”, e che qui vengono attualizzati in una New York che è tutto e il contrario di tutto. La sofferenza degli ultimi, sembra dire il racconto, non è solo quella corporale, e non è tuttavia solo il disagio psichico della malattia mentale: è qualcosa di più profondo, che ha la sua tana dentro di noi, che fa parte della nostra storia e che è difficile indicare con il dito o colpire con il lancio della prima pietra. È il mondo che presenta la sua non razionalizzabile faccia, una faccia che cambia sempre, non torna mai agli stessi lineamenti. Fatto di desiderio di un abbraccio, di sentirsi vivi grazie al conforto dell’altro che non si presenta sempre e solo con i connotati del buon samaritano, ma con quelli dell’amore e della passione. Ma Abram Singer, nome piuttosto insolito per un sacerdote cattolico, non lascia. Anche se questa ostinazione ad una fedeltà contraddittoria alla propria vocazione costa molto cara, più cara di una placida accettazione o di un rifiuto totale, perché va a pescare dentro le istante profonde e mai completamente chiare dell’essere.
Il romanzo è la storia di una strana fedeltà che – come in Marshall – divora e destabilizza, ma nello stesso tempo, dentro una stanzetta di una casa parrocchiale arredata da un antiquato televisore e in compagnia di altre umane imperfezioni, pone di fronte alla sfinge della propria umanità: la sua incompletezza, la sua incapacità di essere totalmente fedele ad una scelta, il suo lacerante dolore.
Ed è qui che rientra Dio, come nella terribile notte in cui il poliziotto de “L’uomo che fu giovedì” di Chesterton si trova in mezzo a quelli che crede veri, sanguinari anarchici pronti a far saltare il mondo.
È più semplicemente la prova del Venerdì santo dentro di noi, che allontana dalle regole della fede ma che paradossalmente, attraverso il dolore lacerante, avvicina al Gesù sofferente e pronto alla croce: “Sì, abbraccio il rito, anzi mi lascio abbracciare, perché solo in quella liturgia millenaria riesco a trovare la verità. Non c’è nessuna separazione tra il profumo d’incenso e la carità che cerco di praticare nei centri accoglienza”.
Storia di una fedeltà a costi alti, compreso quello dell’equilibrio interiore, questa di Monda, e tuttavia specchio di una dimensione che è sempre nel nostro qui e nel nostro presente, un presente, come si è visto, che viene da molto lontano.
Una delle tante storie di uomini di fede in crisi, per tanti e svariati motivi. Non consolante né tranquillizzante, semplicemente specchio di una realtà come quella del sacerdozio, fatta di persone che dietro le parole rassicuranti ed il perdono agli altri celano gli abissi di tutti gli uomini.