Ritorno al mondo nuovo

I “cieli nuovi e terra nuova”, del messianismo tecnocratico dovrebbero destare molte preoccupazioni. Sono forze capaci di costringere a inedite servitù al servizio di nuovi poteri di controllo.

Un’epoca di cambiamento


Guardando ciò che ci circonda è inevitabile notare una diffusa spinta al cambiamento. È un bisogno generalizzato e diffuso. Lo si avverte in movimento ad ogni livello, sia esso locale o globale. Dire se il cambiamento è reale e se soprattutto corrisponde ad un miglioramento della situazione è più problematico.

Da inguaribili pessimisti quali siamo ci verrebbe da dire di no. Ma messo giù così è solo un pregiudizio. Magari lo potremmo argomentare legandolo all’atmosfera buia che fa da controcanto al “nuovo che avanza”. Non ci mancherebbero certo gli esempi: l’eclissi della dignità lavoro, la rinuncia in nome del debito a conquiste faticose, il rinnovarsi di problemi ambientali ed ecologici. Se il cambiamento c’è, viene da pensare, si cambia in peggio. Ma non sarebbe un argomento sufficiente.

Il tempo dei movimenti


Ci sentiremmo rispondere che, sia su scala globale che locale, stanno prendendo vita e forza movimenti in grado di generare buona amministrazione e bene comune. Sono soggetti che prima o poi (alla fine il bene vince sempre!) ce la faranno a cambiare le cose, a ristabilire la giustizia, a eliminare la corruzione. Il “quando”, ovviamente, dipende dalla «partecipazione» alle idee che vengono «dal basso» e da quanto si guarda a chi «è competente».

L’avvento della tecnica


In attesa di questo “avvento” che sostituisce la «vecchia politica» con buone pratiche – cioè con buone tecniche – i migliori tra i tecnici sono già al comando. I problemi sono complessi, indecifrabili: non si può far altro che affidarsi ad un gruppo di uomini scelti. Gente sicura, che sa il fatto suo, che sa metterci le mani.

In sostanza, pare che l’unico cambiamento possibile possa farsi innanzi solo all’interno di un orizzonte dato: quello dell’efficienza, dell’utile, della razionalizzazione. Ecco la radice del nostro scetticismo rispetto a ciò che viene. Le grandi e piccole energie critiche della nostra società, paiono agire per lo più all’interno di un orizzonte bidimensionale. Quello organizzato dalla tecnica guidata dalla scienza moderna.

Il superamento della democrazia


Il governo tecnico è una forma di dominio totalitario molto più sottile dei precedenti. La sua legittimità non nega affatto la formalità democratica, e non perché prende i voti in Parlamento. L’orizzonte scientifico risolve, superandolo, ogni discorso sulla «condivisione delle scelte» e sulla «partecipazione», comprese le sue forme “dal basso”. Per definizione infatti, ciò che è scientifico è intersoggettivo, condiviso. Non esiste scienza senza il consenso comune. L’esperienza scientifica prevede il ripetersi dei risultati a parità di condizioni quale che sia il pubblico. Da questo punto di vista il governo della Terra da parte della tecnica, la cosiddetta globalizzazione, appare intrinsecamente democratico, costituendosi come forma radicale di efficienza della condivisione e di condivisione dell’efficienza.

La giustizia nell’età della tecnica


Lette così, le ingiustizie dell’economia globale sono cattive letture dell’autentica giustizia. Si sta facendo avanti un ambiente in cui ciò che è buono, equo, possibile, sarà stabilito da un punto di vista tecnico e a vantaggio di chi la tecnica possiede.

Sono modi di assegnare senso al mondo che aprono la strada a nuove schiavitù dentro apparenti liberazioni. Dal punto di vista individuale pare che quasi più nulla sia precluso. Dalle forme della sessualità al miglioramento delle nostre capacità fisiche e psichiche attraverso interventi sul genoma, tutto è o sarà raggiungibile affidandosi alla tecnica. La stessa felicità individuale, in fondo, potrebbe essere distillata in una droga economica e priva di effetti collaterali. Ma sono dipendenze assai costose dal punto di vista delle relazioni sociali ed economiche. Già oggi veniamo continuamente convinti che non è tecnicamente possibile un orizzonte politico alternativo, il recupero dello stato sociale o il ritrarsi dal mercato globale.

Per la gelida giustizia tecnica della scienza economica dominante, aumentare le tasse ai ricchi è impossibile perché «il sistema perde in competitività». L’impoverimento forzato richiesto ai popoli (vedi la Grecia) invece, è semplicemente «ciò che deve essere fatto», ciò che è giusto fare. Quello che ne consegue sarà pure il migliore dei mondi possibili, ma non possiamo evitare di essere diffidenti verso chi ritiene equo uno Stato che deve spendere poco o nulla per l’assistenza sanitaria e sociale, la scuola, i servizi pubblici.

L’altra possibilità


L’Avvento che aspettiamo noi è altro dal paradiso della tecnica. È quello in cui la salvezza non è dal debito, dal default, dalla crisi dell’Euro. Attendiamo il momento in cui guarderemo a ciò che davvero occorre all’uomo, al momento in cui ritorneremo a soddisfare i bisogni invece dei desideri, al momento in cui la misura di ogni azione saranno le persone e non il mercato.

Di fronte alle sfide che ci vengono indicate come epocali ed inevitabili, continueremo a pensare che, per provvedere allo sviluppo umano, in fondo, basta molto meno e occorre guardare altrove. Non è una utopia per i sempre più ristretti circoli del pensiero cristiano. È qualcosa che non è mai morto nella storia perché corrisponde ad un bisogno profondamente radicato nell’uomo e che per ciò stesso è alla portata delle moltitudini. Lo scalzerà la società modellata dalla tecnica? Crediamo di no. L’inquietudine implacabile dell’animo umano troverà ancora una volta la sua strada.

A noi tocca il tempo dell’attesa. Non è semplice inerzia: consiste nel lavoro da fare per coniugare al presente il Pater Noster. Un compito verso cui la riscoperta dell’eredità cristiana non può che essere una acquisizione centrale.