Ritorno al futuro?

Il peso di questo tempo incerto grava sempre di più sui giovani. Sarebbe un vantaggio per tutti se fossero loro messi a disposizione strumenti culturali, normativi e politici per poter far fronte al mondo che cambia.

Il tema del precariato nel lavoro è da diverso tempo escluso dal dibattito pubblico. È finito nel dimenticatoio della politica, del mondo della cultura e dei media. Le diverse figure chiamate dal loro ruolo a governare il problema fanno ben poco per affrontarlo. Il loro silenzio è prodotto da incapacità, interesse (o peggio disinteresse).

Pare che l’unica strategia possibile sia adattarsi al peggio. Proprio tra quelli che maggiormente ci rimettono, non è difficile trovare difensori del sistema che li sfavorisce.

In questo contesto l’offerta di lavoro si coniuga poco volentieri con un sistema di garanzie. Chi cerca di ottenere (o mantenere) un lavoro è in una chiara situazione di debolezza. Tolte le norme e gli usi che in passato equilibravano i rapporti di forza tra impresa e lavoratore, quest’ultimo soccombe inevitabilmente alle ragioni del più forte. Il fenomeno è così evidentemente ingiusto che appena lo si guarda dà scandalo.

Le revisioni al ribasso delle prerogative del lavoratore sono state fondate sull’idea che la flessibilità avrebbe aumentato la facilità di ingresso nella vita produttiva. Si è detto che alla globalizzazione e alle difficoltà dell’impresa nel mondo che cambia, è necessario rispondere con una revisione del mercato del lavoro. Ognuno può giudicare da sé la malafede o la plausibilità di queste posizioni. I risultati finora ottenuti sono sotto gli occhi di tutti.

Se le sofferenze e le contraddizioni che il precariato crea potessero essere liquidate con un battuta, verrebbe da dire che al mercato del lavoro si è sostituito il lavoro a buon mercato. Le imprese cercano di non assumere per disimpegnarsi dal lavoratore, pur pretendendo che questi faccia propri gli obiettivi aziendali. È un atteggiamento ipocrita e dannoso, che introduce una distribuzione di diritti e doveri squilibrata al posto di un’intesa solidale, di una prospettiva comune, di uno scopo condiviso.

La relazione tra capitale e lavoro non dovrebbe mai dimenticare di accordare l’agire economico a ideali di equità. Ma non è solo una questione di bassi salari. Il punto è che quando alcuni sono troppo liberi e altri hanno i lineamenti del coscritto, si produce un attrito che mina le basi della convivenza civile. Nonostante un certo stordimento dell’opinione pubblica, si sta facendo avanti una nuova consapevolezza e con essa una indignazione diffusa. È forte l’esigenza di un ripristino degli elementi di giustizia.

Il “normale” contratto di lavoro in questo sarebbe assai utile, ma è largamente inutilizzato. È uso consolidato delle aziende rifiutarlo anche a quei dipendenti che dimostrano costanza nel tempo e un’alta competenza tecnica. Si tenta di aggirarlo in tutti i modi, come se fosse un peso anacronistico o un fattore dannoso.

Ma le forme del lavoro non sono indifferenti rispetto alla vita delle persone e quindi della società. Sono il metodo per organizzarsi attorno a fini e comportamenti condivisi. Rassegnarsi alla frammentazione delle relazioni lavorative genera disgregazione nei rapporti sociali. Non solo: anche l’io del lavoratore a poco a poco si spezzetta. Il suo senso d’identità rimane come schiacciato sotto il peso crescente della precarietà. Il lavoro ridotto a fornire i soli mezzi di sopravvivenza, perde il tratto umano e creativo dell’homo faber. È una condizione capace di generare un profondo senso di angoscia, le cui radici si trovano molto al di sotto del livello delle retribuzioni.

Al popolo dei precari appartiene la quota di coloro che lavorano attraverso la varietà di contratti a termine oggi disponibili, solitamente usati a sproposito. Peggio di loro si trova chi è sfruttato al di fuori di quella minima regolamentazione. Innanzitutto chi è costretto nel nero vero e proprio. Poi quanti debbono ricorrere all’uso distorto delle “ritenute d’acconto” o della partita iva, mascherando una attività subordinata, chiaramente leggibile nella monotonia uninominale di fatture e ricevute.

Sull’animo di questi lavoratori pesa la menzogna cui si costringono per poter vivere. L’immagine di sé è adulterata, il rapporto con il mondo artefatto. Lo scarto tra ciò che si fa e ciò che si è, tiene aperta una ferita, tarla i pensieri, erode le giornate. Alcuni finiscono a tal punto fuori sesto da sentirsi in colpa nel ricevere un compenso, pur sapendo di aver lavorato offrendo il meglio di sé. Ma l’opera svolta non rende tutela nella malattia, sostegno nella maternità, orari certi, ferie pagate, credibilità creditizia e un orizzonte previdenziale. E allora, quasi inconsciamente, si domandano perché dovrebbe dare diritto ad un salario.

Emerge un problema di dignità. La precarietà lavorativa diventa precarietà esistenziale. Il lavoro disincarnato dai propri scopi non nobilita l’uomo, ma lo debilita nell’intimo, gli assegna un profilo schizoide. Diviene impossibile sostenere con il lavoro l’insieme coerente dei propri bisogni. Si tratta di aspettative, necessità e diritti che rimangono privi di strumenti di salvaguardia.

Chi offrirebbe queste condizioni ai propri figli? Viene da chiederlo agli imprenditori, ai consigli di amministrazione, a tanta parte della politica e del sindacato.

«La Repubblica», il modo di stare insieme che ci siamo dati per portare a pieno compimento la nostra vocazione come popolo e come persone, «è fondata sul lavoro». Il primo articolo della Costituzione viene spesso preso con leggerezza. Eppure è dettato da uno sguardo profondo. Non confonde banalmente lavoro e “posto di lavoro”, ma indica nel lavoro il compito di produrre l’italiano, ovvero di dare vita a uomini con una identità.

Se davvero si ha a cuore il destino dell’Italia, è necessario elaborare strumenti che difendano le ragioni del lavoro. Recuperare l’insieme delle condizioni che danno sicurezza alla vita individuale è l’unico mezzo per riprendere a crescere economicamente, culturalmente, spiritualmente. Diversamente arriverà il momento in cui tutto sarà talmente precario da rendere inevitabile un crollo.