Riprendersi il lavoro a cominciare dalle parole

Occorre ricominciare dal linguaggio, dal perché si sia operata, nel corso degli ultimi venti anni, una sorta di rimozione, una generale ripulitura del lessico originario, tale da occultare e rendere distante dall’immaginario collettivo – in sintonia coi dettami del modello dominante – dapprima il lavoro, la produzione, e in seguito i produttori, l’insieme dei lavoratori.

È culturalmente impressionante quanto è accaduto. Tutto è divenuto asettico, impersonale, astratto, liscio, senza ruvidità, senza contraddizioni. Una gigantesca operazione di virtualizzazione della realtà.

Il capitale, al centro della vita, considera orpello tutto ciò che può ostacolarne l’ascesa, il trionfo della sua ragione ultima, il profitto. Sotto i nostri occhi sono state gettate le fondamenta di un mondo d’ovatta, puro, bianco, artificiale, ma soprattutto esente dal conflitto. Altro dalla realtà, altro dal corpo materiale, dalla fatica, dallo sfruttamento, dai morti, da regole sulla sicurezza disattese.

Così è l’immagine che i media televisivi quotidianamente ci consegnano di quella realtà che noi insistiamo però a definire fabbrica, coi robot in azione, i carrelli elevatori che vanno da una parte all’altra lungo le corsie che separano linee dove un tecnico calca pulsanti di comando o scrive tabelle di produzione. Il tutto in un ambiente super pulito, atossico, ben illuminato, altamente tecnologico e privo di rumori.

Dalla brutalità dei ricatti quotidiani, normalizzati dalla violenza di un governo che si fa interprete di una nuova e folle ideologia, operati sulla carne viva di quanti nei nostri “capannoni” ci lavorano, un pezzo di Paese deve tornare a prendere coscienza di aver vissuto, di continuare a vivere e interpretare un perenne carosello, uno spot da fascia protetta, con tanto di rassicurante musichetta a fare da colonna sonora, che spinge verso una lenta quanto inesorabile mutazione antropologica, verso un proprio, rassegnato consegnarsi ai capricci del burattinaio globale.

Che gli aut-aut stile Fornero degli ultimi mesi, non ci trasformino in vittime passive di un modello spacciato come privo di alternative, ma ci inducano a voler capire, e a farci di nuovo riconoscere.

Per anni chi penava per otto ore in fabbrica era accanto a noi, eppure qualcosa ce lo ha reso invisibile, perché socialmente spogliato del suo ruolo. Pur sedendo l’uno accanto all’altro, il virus del “ciascuno pensi per sé” ci ha resi estranei, diffidenti, persino nemici. Fuori e dentro la fabbrica. Fuori e dentro ogni luogo di lavoro.

Oggi, sotto lo schiaffo della sconfitta, è tempo s’inizi a riflettere sui quintali di spazzatura di cui ci stiamo nutrendo e che hanno azzerato in noi ogni istinto di solidarietà e quel senso di una comune appartenenza che dà dignità a sé stessi e al proprio lavoro.

Dovremmo rispolverare parole nate con l’uomo e volutamente destinate all’oblio, sepolte in soffitta in quanto lessicalmente inidonee ad esprimere e rappresentare una modernità che per raccontare i luoghi del produrre ha preferito termini più patinati, immaginifici, soft.

A dispetto dei chierici della neo-lingua, dovremmo ricostruire un linguaggio ed un substrato ideologico in cui le battaglie per il lavoro possano tornare ad avere un senso e la speranza di riuscire vincitrici, in una prospettiva carica di storia, densa di significati che evocano sì scenari di ieri, ma che tornano, in epoca globale, ad interrogare il corpo sociale, la politica, la cultura.